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Questo articolo è stato pubblicato il 26 febbraio 2014 alle ore 07:19.

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Un celebre incipit, nella traduzione di Paolo Crepet, sermoneggia: «Tutte le famiglie funzionali si assomigliano. Ma ogni famiglia disfunzionale è disfunzionale a modo suo». L'esatto contrario dei memoir sfornati dal mercato editoriale, che sono tutti disfunzionali e si somigliano alla nausea. Ingredienti: 55% trauma e 5% trama, 15% sfiducia radicale nella famiglia e 15% fiducia ossessiva nella famiglia, 5% perdizione e 5% rinascita, più un pizzico di sesso malato.

Inoltre un memoir, a differenza dei più compiuti romanzi incompiuti, deve avere un lieto fine, altrimenti non saresti arrivato a scriverlo e perderesti quella fetta di pubblico disposta a scucire 20 euro per credere di riuscire a disintossicarsi, grazie a una parabola che si vorrebbe sincera, dalle slot disseminate nei bar, dalle chat di Facebook oppure, più semplicemente, dal crack. A ogni modo la ferita è centrale. Deve esserci un prima e un dopo grazie al quale dare un senso a questa cosa anarcoide che chiamiamo esistenza. Definito lo spartiacque, sarà più facile non solo tirare a campare ma anche tirare giù una scaletta per scrivere.

E invece nel quarto libro di Gary Shteyngart – appunto un memoir dal titolo Little Failure, come lo chiamava la madre (Random House, uscirà per Guanda a settembre) – c'è molto di più. Preceduto da un trailer con James Franco che ne interpreta il fidanzato (autore di un più venduto 50 Shades of Gary) e Jonathan Franzen che si finge uno psicoanalista intento a spippolare sull'iPhone, il libro parte dalla New York negli anni Novanta dove un emigrato russo di nome Gary Shteyngart, in origine Igor Steinhorn (colpa di un felice refuso, tradotto avrebbe dato Igor Corno di Pietra: «Ho rischiato di chiamarmi come un pornodivo bavarese»), vivacchia tra un lavoro ingrato e inspiegabili attacchi di panico, passando le giornate a ubriacarsi in pausa pranzo, mentre un romanzo dall'improbabile titolo Le piramidi di Praga vegeta nella sua testa. Come è finito così in basso? E dire che tutto era cominciato nel migliore dei modi. O quasi.

Entra in scena una numerosa famiglia ucraina in una graziosa foto in bianco e nero. Originari di un paesino di campagna, non sorridono all'obiettivo e non c'è da stupirsi: tranne la bambina che ci guarda in primo piano, ossia la nonna di Igor, di lì a poco tutti verranno sterminati. La bimba emigra in un orfanotrofio di San Pietroburgo, dove si fa ingravidare prima che il nonno parta e schiatti lottando contro i nazisti. Sempre meglio di come va allo zio: costui, dopo avere assistito all'omicidio dei genitori e della sorella, essersi unito alla resistenza e poi all'esercito, viene spedito in Siberia per avere scritto poesie alla moglie di un alto papavero (la vita ha bisogno di un editor, ma quanto a umorismo se la cava bene). Alla generazione successiva non va meglio: quando i genitori di Igor scappano sotto le bombe, i primi ricordi del padre sono una zia che si scaraventa fuori dalla finestra di una capanna per sfuggire alle pantegane e il funerale del suo migliore amico, morto per un nonnulla.

Da tutto questo dolore poteva nascere un bambino sano? E infatti il piccolo è asmatico e fragile. «Perché ho paura di tutto?», chiede alla madre. «Perché sei nato ebreo». Dopo un'infanzia passata a giocare sotto un'enorme statua di Lenin, il cui movimento roteante lo fa sembrare intento a ballare il merengue, ecco arrivare l'agognato salto in America, via Roma. Durante un'idilliaca parentesi in Italia, la famigliola resta colpita dalla pervicacia delle Brigate Rosse nel perseguire un'idea dalla quale loro se la stanno svignando a gambe levate e campa vendendo ciarpame sovietico ai protohipster di Porta Portese.
Ciliegina amara sulla torta: il Queens. Non era meglio restare sotto il Lenin latino che trasformarsi in un immigrato circonciso e rantolante, pestato a scuola da tutti e costretto a leggere Čechov, invece di guardare Hazzard, perché i genitori sono troppo poveri per avere una televisione?
Che cosa può succedere di peggio, oltre ad avere una madre che ridefinisce il concetto di "ansiosa" (manco si trovasse in un memoir ebraico-russo), un'adorata nonna baffuta che lo porta a cercare irsutismo in ogni donna e un padre matto che regala un cetriolo alla nuora: «Io grande, mio figlio piccolo»?

Be', puoi arrancare con la scrittura. Come in una specie di anti-agiografia, Igor snocciola tutti i tentativi di mettere qualcosa su pagina. Si comincia con una favola in salsa socialista (Lenin e l'oca magica), si passa a una science-fiction sgrammaticata fin dal titolo e si continua con una parodia della Torah, dove figura un Sexodus che la dice lunga sulla poetica woodyalleniana dell'autore. Ma quando ce la fa, la scrittura non riscatta un bel niente. Come cantava Dylan: «There's no success like failure, and failure's no success at all». Ci sarà l'invidia del padre, l'incomprensione della madre. Non appena vengono a sapere del memoir, i due gli chiedono quanti mesi hanno ancora da vivere.
Little Failure viola i comandamenti del genere: manca la ferita, sebbene al centro vi sia il passaggio dall'Urss agli Stati Uniti; manca la tesi edificante, sebbene sia la storia di un successo; e manca l'accento dolente, sebbene ci sia il dolore. Fedele alla lezione di Joseph Heller, forse meno accreditato alle nostre latitudini rispetto alle macerazioni dei Cheever o agli affreschi dei DeLillo, Igor Corno di Pietra sceglie di tenere alta la bandiera della conoscenza del mondo attraverso la saggia lente dell'umorismo.

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