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Questo articolo č stato pubblicato il 01 marzo 2014 alle ore 14:37.
L'ultima modifica č del 01 marzo 2014 alle ore 14:41.

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Il sottotitolo č "Piccola danza macabra in 5 scene". Le scene ci sono tutte. Quello che manca, pur all'interno di una sorta di divertissement, č quel senso di macabro richiesto che renderebbe il dramma tale. Un affondo, cioč, tagliente nel tema, una chiave registica piů netta e incisiva, che avrebbe reso cinica e sgradevole la materia trattata. E, ancor piů odiosi i personaggi della pičce. Che invece risultano dei ritratti opachi di una comunitŕ patetica e senza sussulti di coscienza e di indignazione quando, invece, la critica sociale che denuncia l'autore č altamente corrosiva. "Fede, amore, speranza" č il quadro conclusivo – dopo "Fiabe del bosco viennese" e "Gioventů senza Dio" – del bel progetto di Walter Le Moli che ha racchiuso una trilogia dedicata allo scrittore Ödön von Horváth (1901-1938).

Operazione tesa a mettere in luce la desolazione del suo mondo senza speranza né caritŕ, e la chiaroveggenza attraverso le sue commedie che, prescindendo dal momento storico a cui sono legate – l'ascesa del nazismo –, rappresentano ancora la stupiditŕ e volgaritŕ umane. Qui c'č una donna che tenta di lucrare su una donazione di organi, i suoi. Per sopravvivere – pagare una multa e cosě poter continuare a lavorare senza finire in galera – ricorre allo stratagemma di vendere a un Istituto di anatomia il proprio cadavere venturo. Esordisce dicendo: "Mi hanno assicurato che uno puň vendere il proprio corpo, e cioč che quando sarň morta potranno fare col mio cadavere tutto quello che vorranno nell'interesse della scienza, e perň i soldi me li darebbero prima, adesso...". Vittima o individuo col pelo sullo stomaco? Basta essere consapevoli di ciň che avviene anche oggi, dove chi ha bisogno di soldi non va tanto per il sottile.

La donna di Horváth combatte contro forze che non conosce, ha vitalitŕ, vorrebbe spiccare un salto, ma viene man mano stritolata nel corso di piccoli episodi, rivelandosi ottusa, condannata dalla sua stessa subcultura. Fallisce e muore senza un briciolo di patetismo. E' una parabola spaventosa ma pure allegra dove la donna č fatta a pezzi dal regime inflazionato di Weimar. Lei, paradigma di ogni societŕ svalutata e che destina tutti i suoi valori a un consumo sempre piů rapido, rappresenta l'agnello sacrificale: della (propria) speranza, quella di sopravvivere. In quanto agli altri, non c'č traccia di alcuna delle virtů evocate nel titolo. Nessuno sembra mosso da fede o speranza. Chi mostra un minimo di caritŕ, subito getta la maschera: il medico che aveva prestato alla donna dei soldi lo aveva fatto credendola figlia di un uomo importante; il poliziotto che diceva di amarla, quando la vede compromessa con la legge, l'abbandona e scappa. Insomma, come dice Horvath nel 1932, anche non coltivare illusioni non č che un' illusione.

Se i primi due titoli del trittico ci sono sembrati pienamente riusciti, specialmente "Gioventů senza Dio", quest'ultimo, spiace dirlo, risulta alquanto debole sia sul piano della recitazione, piuttosto disomogenea, sia della messinscena, che, attualizzata con costumi d'oggi, ci č sembrata priva di ritmo e spessore. Il finale, per esempio, con un assembramento di carabinieri spesso immobili e indolenti davanti all'apparizione in caserma della donna salvata dal suicidio per annegamento, che dovrebbe essere la parte culminante della denuncia di un sistema che schiaccia la persona nel freddo ingranaggio burocratico, si risolve in una didascalica scenetta senza sussulti. Questa ulteriore "ballata di morte", dove i personaggi si alternano con leggerezza sulla scena per dire atroci frasi fatte e compiere infine atti crudeli, risulta priva della forza del messaggio: l'impossibilitŕ di qualsiasi comunicazione e condivisione, in un mondo dove regna solo l'indifferenza. La scena, graficamente segnata da una striscia bianca a terra dentro il nero globale delle pareti con un drappo centrale alzato per ingressi e uscite, non sembra comunicare particolare significato nell'impianto drammaturgico.

"Fede, amore, speranza", di Ödön von Horváth, regia Walter Le Moli, con Cristina Cattellani, Laura Cleri, Paola De Crescenzo, Francesco Gerardi, Sergio Filippa, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi, Nanni Tormen, costumi Gianluca Falaschi, luci Claudio Coloretti. Produzione Teatro Due Parma. Al teatro Due fino al 2 marzo

www.teatrodue.org

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