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Questo articolo è stato pubblicato il 03 marzo 2014 alle ore 11:45.

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Un dipinto di Philip Le Bas, «Gateaux» (smalto su tavola, 1992) che sarà messo all'asta a Londra, i prossimi 5 e 6 marzo (quotazione base 600 euro) nell'incanto da Sotheby's della collezione strepitosa e multidisciplinare del milionario americano Stanley J. Seeger (1930-2011).Un dipinto di Philip Le Bas, «Gateaux» (smalto su tavola, 1992) che sarà messo all'asta a Londra, i prossimi 5 e 6 marzo (quotazione base 600 euro) nell'incanto da Sotheby's della collezione strepitosa e multidisciplinare del milionario americano Stanley J. Seeger (1930-2011).

Fichi freschi
Mai ha conosciuto davvero un cibo, mai ne ha fatto esperienza fino in fondo colui che sempre si è contenuto nel mangiarne. In questo modo si scopre tutt'al più il piacere, mai però la bramosia del cibo, quella deviazione che dalla tranquilla strada dell'appetito immette nella giungla del l'ingordigia. Nell'ingordigia infatti si sommano le due cose: la smodatezza del desiderio e l'uniformità dell'oggetto cui è rivolto.

Divorare significa soprattutto: mangiare un cibo e solo quello, ma senza lasciarne nulla. Indubbio che, rispetto al piacere del cibo, il divorare si avvicini molto di più all'annientare. Così quando si addenta una mortadella come fosse una pagnotta, si affonda la faccia nel melone come in un guanciale, si lecca il caviale dalla carta oleata, o davanti a una forma di edam si dimentica, semplicemente, qualsiasi altra cosa commestibile esista sulla terra.
Come scoprii per la prima volta questa verità? Fu alla vigilia di una delle mie decisioni più difficili. V'era una lettera da spedire o da stracciare. Da due giorni la portavo con me, da qualche ora tuttavia senza più pensarci. Con quel trenino sferragliante ero salito infatti, attraverso il paesaggio corroso dal sole, fino a Secondigliano. Il paese si adagiava solenne nel silenzio del giorno feriale. Sola traccia della passata domenica i pali che avevano sostenuto girandole luminose e batterie di razzi.

Ora se ne stavano lì nudi. Alcuni recavano a metà altezza cartelli con la figura di un santo napoletano, o quella di un animale. Attraverso le porte aperte dei granai si vedevano donne sedute, intente a cernere il mais. Io ciondolavo stordito per la mia strada quando vidi, all'ombra, un carretto con dei fichi. Fu per inerzia che mi diressi verso il carretto, e per pura dissipazione che, per pochi soldi , mi feci dare mezza libbra di quei fichi. La donna pesò generosamente. Ma quando i frutti neri, blu, verde pallido, viola e marroni furono sul piatto della bilancia a mano, venne fuori che non aveva carta per avvolgerli. Le massaie di Secondigliano portano da casa i loro recipienti, e per i globetrotter lei non era attrezzata. Io però mi vergognavo di piantare lì quei frutti. E così andai via con fichi nelle tasche dei pantaloni e della giacca, fichi in entrambe le mani tese, fichi in bocca.

Ora non potevo smettere di mangiare, dovevo cercare di salvarmi al più presto dalla massa di turgidi frutti che mi aveva assalito. Ma quello non era più mangiare, casomai un bagno, tanto l'aroma resinoso intrideva i miei abiti, aderiva alle mie mani, impregnava l'aria che fendevo portando innanzi a me il mio carico. E poi dovetti valicare il passo del gusto, là dove, superati gli ultimi tornanti, quelli del disgusto e della nausea, la vista spazia su un impensato paesaggio della gola: un'insipida, sconfinata marea verdastra di bramosia, che non conosce altro se non il fluttuare fibroso e filamentoso della polpa carnosa e squarciata e il totale mutarsi del piacere in assuefazione, dell'assuefazione in vizio.

Odio montò dentro di me verso quei fichi, non vedevo l'ora di fare piazza pulita, di liberarmene, di scrollarmi di dosso tutto quel turgore pronto a spaccarsi. Mangiavo per annientarlo. Il morso ritrovava la sua intenzione primordiale. Quando staccai dal fondo della mia tasca l'ultimo fico, vi era incollata la lettera. La sua sorte era decisa, anch'essa dovette soccombere alle grandi pulizie: la presi e la stracciai in mille pezzi.

Pranzo caprese
A Capri era stata a suo tempo la famosa cocotte del paese, adesso era la sessantenne madre del mingherlino Gennaro, che da ubriaca picchiava con regolarità. Viveva in una casa color ocra alle ripide pendici del monte, in mezzo a un vigneto. Vi giunsi in cerca dell'amica che stava a pigione da lei. Su a Capri l'orologio batteva le dodici. Non si vedeva nessuno; l'orto era deserto. Cominciai a risalire la scalinata dalla quale ero venuto. Fu allora che udii alle mie spalle, vicinissima, la vecchia. Stava sulla soglia della cucina, in gonna e camicetta dai colori stridenti, vesti in cui probabilmente sarebbe stato vano cercare macchie, tanto uniforme ed equa vi era la distribuzione del sudiciume. «Voi cercate la signora. È partita colla piccola». E sarebbe tornata presto, soggiunse. Ma questo esordio fu solo la polla da cui la voce stridula e acuta si riversò in un fiume di parole d'invito, mentre la testa imperiosa si muoveva con ritmi che, decenni prima, dovevano aver sortito un effetto eccitante. Bisognava essere un perfetto galantuomo per sottrarsi con tatto, e io non padroneggiavo nemmeno l'italiano. Questo solo capivo: era un pressante invito a condividere il suo pranzo. Ora scorsi pure il gracile omarino che, dentro, accanto al focolare, pescava col suo cucchiaio in una zuppiera. Verso quella zuppiera si diresse la donna. E subito dopo si presentò di nuovo sulla soglia con un piatto, che mi porse in un subisso ininterrotto di chiacchiere. Io però fui piantato in asso da ogni residua capacità di afferrare l'italiano. Sentii all'istante che era troppo tardi per andarmene. In un vaporare di aglio, fagioli, grasso di agnello, pomodori, cipolle, olio mi apparve quella mano irremovibile, e io ne presi il cucchiaio di stagno. Ora penserete forse che inghiottendo quella broda dovessi sentirmi strozzare dal disgusto, e che per il mio stomaco non ci fosse nulla di più impellente che rigurgitarla? Quanto poco sapete della magia del cibo, e quanto poco ne sapevo io stesso fino al momento di cui sto qui parlando. Giungere a gustarlo fu un'inezia, fu solo il piccolo, decisivo passaggio tra i due momenti: prima sentirne l'odore, poi però essere irrimediabilmente ghermito, follato da capo a piedi, impastato da quel cibo; esserne afferrato, dal cibo come dalle mani della vecchia puttana, spremuto, e spalmato del suo succo, suo del cibo o della donna, questo non avrei più saputo dirlo. L'obbligo della cortesia era soddisfatto, ma anche la foia della vecchia strega, e io risalii il monte consapevolmente arricchito dell'esperienza di quell'Ulisse che vide trasformare in porci i suoi compagni.

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