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Questo articolo è stato pubblicato il 19 marzo 2014 alle ore 20:40.

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Nelle colline alte del viterbese, in un bosco vicino a Soriano del Cimino, c'è qualcosa di unico e straordinario: una grande imbarcazione di marmo bianco. Copia perfetta della barca di Marmo - monumento scampato salla furia iconoclasta della guardie rosse cinesi della Rivoluzione Culturale - che la Santa Madre Imperatrice Ci Xi fece costruire mentre il celestre Impero volgeva alla fine, modello esclusivo del cenotafio. Una Barca - che è ancora attraccata alla sponda del lago Kumming, nella capitale - che riporta di colpo al 1965, l'anno delle Guardie Rosse, quando Eugenio Benedetti era in Cina ospite del governo, e questo gli consentì di soggiornare presso il Palazzo d'Estate, dove vede la barca di Ci Xi e lì incontra un personaggio chiave della sua memoria, Pu Yi, il pronipote della principessa che regnò per soli tre anni, l'Ultimo Imperatore.

Nel suo «I Capelli della Madonna e i marmi di Ciu En Lai» (Ciuffa Editore) Eugenio Benedetti ci porta con mano in anni lontani, quando andare in Cina era davvero impresa per pochissimi, e costruire ponti di dialogo (e di grandi affari) era davvero un fatto unico. Ma oggi questo testimone d'eccezione, siciliano cosmopolita, ci guida con mano appassionata attraverso un mondo sconosciuto, quello di una Pechino (e non solo) segreta, isolata dal mondo dopo la rivoluzione di Mao Tse Tung, che egli ha conosciuto di persona. Ma è con Ciu En Lai che stringe un rapporto di amicizia, e che gli vale tanta fiducia tanto da ottenere l'incarico di costruire strade e di aprire le miniere di marmo che oggi esportano in tutto il mondo.

Uomo d'affari come forse non ne esistono più, quelli che la "faccia è tutto" - che in Cina è la regola numero uno da sempre - ma anche strardinario viaggiatore di luoghi e popoli. Come quando, sempre grazie "ad una parola" di Ciu En Lai, fu il primo italiano a mettere piede a Lhasa, Tibet, dopo la fuga del Dalai Lama. Emozianante il racconto della scoperta di quella città, dei templi, dei padiglioni, dei dedali di gallerie, della residenza privata dal Dalai Lama, e le testimonanze dei vecchi "dob-dob", monaci dell'antico ordine: "Il Tibet è pieno d'oro, nei fiumi si nuota in un pulviscolo d'oro e sul fondo splendono vene d'oro".

Una vita di ricerca di civiltà lontane e riti immutabili, ma anche di forte business, praticato in un contesto di totale assenza di relazioni diplomatiche tra Italia e Cina: «Ogni volta che arrivavo a Hong Kong - racconta Benedetti - ritiravo un salvacondotto speciale alla sede della Bank of China a Victoria, poi mi imbarcavo in un treno che mi portava al confine dei New Territories, un ponte ferroviario ove mi toccava portare la valigia da ma per passare la frontiera, in quanto non era concesso ai "coolies" cinesi della colonia britannica varcare quel ponte. Subito di là c'era un treno con la stella rossa della Repubblica Popolare e un vagone speciale mi aspettava per portarmi a Canton». Un documento raro che racconta una storia unica, che lo stesso Benedetto conclude ricordando un altro italiano - più famoso di lui, certo - che secoli prima varcò i confini dell'Impero, il gesuita padre matteo Ricci, vissuto e sepolto a Pechino: «In nome della storia non esiste un popolo più pacifico del cinese, chiuso nella sua grande Muraglia che non ha mai travalicato in armi». E Benedetti, a distanza di centinania di anni sottoscrive: mai un loro esercito è uscito dai confini della loro terra, mai una loro flotta da guerra è uscita dai loro mai per un'avventura bellica.

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