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Questo articolo è stato pubblicato il 21 marzo 2014 alle ore 13:11.
L'ultima modifica è del 21 marzo 2014 alle ore 14:56.

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Passa l'esame Non buttiamoci giù: nonostante non sia il miglior film tratto da un'opera di Nick Hornby, ti cattura con una prova d'assieme dei suoi attori più che valida e una regia diligente che sa valorizzare un soggetto affascinante. Lo è anche quello di The Imposter, interessante esperimento sul linguaggio cinematografico, grazie alle mille possibilità che danno documentari e affini. Non si può dire lo stesso di Noi 4, ritorno alla regia dello sceneggiatore Francesco Bruni, validissimo nell'esordio con Scialla e deludente, ora, con una struttura narrativa che ne ricalca le orme, ma andando fuori strada, non ritrovando, in questa storia familiare lunga un giorno, la stessa fluidità e la stessa felicità (e facilità) di racconto.

Vale, questo discorso, anche per Arnaud Desplechin che da sempre si sente un po' Truffaut e che con Jimmy P. ci offre il più classico dei "polpettoni" senza che ci consoli la pur discreta coppia Del Toro- Amalric. Trascurabilissimi e sul filo del trash Il ricatto e ben oltre quel filo Amici come noi: il primo è un thriller, il secondo una commedia demenzial-sentimentale. Ma solo perché lo si legge nelle sinossi, altrimenti sarebbe difficile intuirlo.

Partiamo con le buone notizie: Non buttiamoci giù era un film rischioso, per tanti motivi. A partire dal fatto che un genio come Hornby, già molto cinematografico nella sua scrittura, rischi sempre di appiattirlo sullo schermo. Chaumeil, buon mestierante della macchina da presa, lo affronta con umiltà e non troppi guizzi, quasi come un curatore, più che come un cineasta. Il tema – la difficoltà di vivere e, ancor più, quella di resistere alla tentazione di morire – non era facile, soprattutto se metti quattro assi (Brosnan, Collette, la magnifica Imogen Poots e Aaron Paul) su un terrazzo a un passo dal suicidio. Decidono di darsi una seconda possibilità, insieme: sei settimane di convivenza e avventure comuni per ritrovare la strada maestra. Ne esce fuori un melodramma piacevole, sentimentale, in cui tutti hanno il loro assolo e che lascia lo spettatore con una sensazione positiva, al di là di un finale troppo sdolcinato. Di grande impatto è The Imposter: Bart Layton torna su un tema già potentemente proposto da Clint Eastwood in Changeling. Quello dell'identità e della menzogna collettiva e conveniente che può spezzare cuori e famiglie. Nicholas, infatti, è un ragazzo scomparso, a 13 anni.

Quasi quattro anni dopo viene ritrovato. Forse. Perché il suo terribile racconto non è del tutto credibile, perché i genitori si sforzano di accettarlo ma ne sentono l'estraneità. E un investigatore non rinuncia a indagare su tutte le ambiguità del suo caso. Tecnicamente un documentario, The Imposter (in pochissime sale, ma per fortuna nella bellissima collana Feltrinelli Real Cinema), come allora il film del vecchio Clint, apre uno spaccato quasi insopportabile sul lato oscuro degli Stati Uniti ma anche sulla complessità della psicologia umana, attraverso un (realmente esistito, ovviamente) ladro d'identità che scombina ogni nostra certezza, nel film e fuori. E forse altrettanto voleva fare Arnaud Desplechin con Jimmy P. e Benicio Del Toro e Mathieu Amalric a far da paziente traumatizzato dalla guerra e dottore illuminato (anch'esso reale e autore del libro a cui è ispirato il film, l'ungherese Georges Devereux). Ma la verità è che il film è sempre monocorde, uno spot alla psicanalisi piatto e ripetitivo – come spesso accade al cinema che affronti psicologi e non psicosi – che si appoggia sul grande talento di due interpreti che, però, sembrano più misurarsi l'uno con l'altro che dare vita e forma a un'opera cinematografica. Forse, per una sfida così, ci sarebbe voluto un Polanski.

Cambiando totalmente direzione, troviamo Noi 4. E anche qui, di sicuro, gli attori sono migliori del film. O almeno lo è Gifuni, gradevole nella sua interpretazione dell'eterno ragazzo. Perché Ksenia Rappoport sa rendere bene una donna ansiosa e insopportabile, ma il suo personaggio è scritto in maniera ben poco entusiasmante, mentre i due figli (Lucrezia Guidone e Francesco Bracci) di questa coppia appaiono sempre lontani dallo spettatore, poco empatici e spesso fuori parte. In due o tre occasioni Bruni sa commuoverti e coinvolgerti, ma nel resto del lungometraggio si fa trascinare da stereotipi anacronistici. Il modello di famiglia che anela e rimpiange non esiste più: l'artistoide gifuniano ora sarebbe troppo precario per avere quel sorriso e quella voglia di scherzare, la moglie perfettina e petulante sembra opera di un ritrattista misogino, la figlia alternativa, fin dall'abbigliamento, non si vedeva, così, dalle occupazioni scolastiche degli anni '90. E forse neanche lì. Noi 4 sembra un'opera fuori tempo, che cerca una Roma che non c'è, un nucleo sociale che non ha più cittadinanza nel presente e che forse non l'ha mai avuta nel passato, se non in cerchie ristrettissime e privilegiate, con rimpianti e sentimenti che non riesci mai a sentire credibili.

Rimane poco spazio per parlare di altri due film. Il thriller musicale con Elijah Wood poteva persino essere un buon passatempo per un sabato pomeriggio senza pretese, ma non sa mai avvincerti, con quello script così prevedibile e rigido che ti fa quasi tifare per il cecchino che tiene sotto tiro il protagonista. Mira, il regista, vorrebbe essere Hitchcock, ma ne fa quasi una parodia.

Chiudiamo con Amici come noi. Ovvero Pio e Amedeo, nuova scommessa di quel geniaccio commerciale di Valsecchi che ha già scovato le galline dalle uova d'oro Checco Zalone e Mandelli-Biggio, ovvero I soliti idioti. Pio e Amedeo, vorrebbero essere Ficarra & Picone, ma, nonostante un paio di battute ben riuscite, scontano la regia mediocre di Enrico Lando, una scrittura cinematografica al limite dell'analfabetismo e un gusto pacchiano persino per il genere demenziale.

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