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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2014 alle ore 08:21.

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Fra le opere affrontate in questi anni dai Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa – l'effervescente gruppo torinese, sempre a metà fra gli echi delle avanguardie storiche e una forza trasgressiva tutta contemporanea – Il Misantropo è forse quella dove la dimensione del testo incide di più, dove l'introspezione, l'analisi dei sommovimenti della psiche, e quindi la parola che li esprime, la parola recitata, pesa in modo determinante. La vicenda molieriana è anche quella il cui impianto drammaturgico, rispetto agli orientamenti della compagnia, ha un andamento meno corale, un respiro collettivo decisamente più circoscritto. Il dramma (o la commedia) dei sentimenti che essa rappresenta ha infatti un tratto eminentemente individuale. Alceste, il protagonista, coi suoi umori intransigenti, sprezzanti dei riti modani, è una figura condannata di per sé alla solitudine, all'isolamento, a un'orgogliosa e tormentata distanza dagli altri: persino l'Edipo portato in scena ultimamente dai Marcido, pur nella peculiarità del suo destino, aveva in fondo un ruolo più universale ed emblematico, incarnava l'uomo alla ricerca di una scomoda verità su se stesso.
Quanto alla volubile Célimène, la donna che lui pretende di poter amare, nonostante ne venga ripetutamente ingannato, ella rimanda di sicuro a un preciso "tipo" umano, quello del fatuo animale da salotto: il che non implica però dei comportamenti necessariamente univoci, come dimostra l'atteggiamento della sua naturale alter ego dialettica, la ben più saggia e moderata Eliante: tutto il confronto fra i due affonda dunque nel mistero della loro intimità, tutto lo scontro che li scuote si articola unicamente nelle sfumature della loro capacità o incapacità di abbandonarsi alle passioni.
Questa lunga premessa per sottolineare che Il Misantropo tollera poco la consueta recitazione esagitata, biomeccanica propria dei Marcido: lo spettacolo allestito da Marco Isidori si risolve così in un febbrile corpo a corpo tra il gruppo e il testo, che gli attori si sforzano di ricondurre alle proprie caratteristiche, e soprattutto tra il sofferto Alceste tutto scavato interiormente dallo stesso Isidori – un Alceste nervoso, che non sta mai fermo, che si agita senza sosta, preda di una "selvaggia malinconia", come il suo stato d'animo viene definito nel copione – e il mondo che lo circonda, dal quale lo divide uno scarto anche stilistico.
È proprio nel tratteggiare questo ambiente circostante che si scatena l'incontenibile fantasia visiva della scenografa Daniela Dal Cin: Célimène, Filinto, Oronte e gli altri aristocratici sono infatti raffigurati come delle specie di grotteschi burattini viventi, inseriti dentro elementi di arredamento che, ruotando, diventano degli elaboratissimi teatrini-costumi, dei rigidi gusci a forma di vesti secentesche stilizzate e dai colori accesi, completati da alte parrucche che sono in realtà delle pure costruzioni plastiche e, per quanto riguarda le signore, da gonne fatte di gabbie metalliche, simili a ringhiere di balconi. Gli attori si infilano in queste strutture semoventi come in sagome da baraccone.
Questa immagine ferocemente caricaturale contiene già, di per sé, un implicito giudizio morale su una società e i suoi valori: l'azione, per giunta, si svolge in una gabbia da circo, dove Alceste – che indossa un abito moderno, giacca e pantaloni neri, camicia bianca aperta sul collo – manovra un grande cerchio di ferro, di quelli in cui si fanno saltare le belve, e armato di una bacchetta sembra guidare quei fantocci in carne e ossa, essendone insieme preda e domatore. Di fronte a un personaggio che può essere colto come un nevrotico disadattato o un eroe del libero pensiero, Isidori non pare avere dubbi: è un uomo d'oggi che sfida i vezzi e le ipocrisie della nostra epoca.
A ribadire ulteriormente il suo punto di vista, l'attore-regista introduce tre lunghi brani cantati – lui, brechtianamente, li chiama song – intonati da tutti gli interpreti con accompagnamento di chitarra, in tono ancor più apertamente derisorio: il loro stile svaria dal pop-rock all'opera buffa (ma alla fine c'è anche Rita Pavone col Ballo del mattone) sul filo di strofette dissennatamente surreali. Oscillando su una pedana mobile, Maria Luisa Abate litiga con se stessa sdoppiandosi nelle parti dei due marchesini rivali. Paolo Oricco, Virginia Mossi e tutti gli altri sviluppano la loro declamazione artificiosa, su ritmi quasi astratti. Ma, fra tanto sarcasmo, l'Alceste di Isidori sembra sempre lì lì per soggiacere a una sottile disperazione.
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Il Misantropo, regia di Marco Isidori, Torino, Teatro Gobetti, oggi ultima replica. Dall'8 aprile all'Out Off
di Milano

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