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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2014 alle ore 08:21.

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C'è chi lo definisce «un giornale per sbaglio», «impossibile da dirigere» perché refrattario alla gerarchia, e chi lo paragona a «un campeggio per giovani», dove si vive in comunione e in promiscuità. C'è chi lo trova «anarchico» e chi «un po' snob e vintage», ma l'immagine ficcante è di Luciana Castellina, che fu tra coloro che partorirono e battezzarono il foglio più eretico della sinistra italiana: «Eravamo seduti sul muretto di via San Valentino a Roma, cercando il nome, e qualcuno, forse Lucio (Magri, ndr), disse: il "Manifesto"». Così è nato il giornale corsaro della fronda comunista, fondato come rivista nel 1969 e diventato quotidiano nel 1971. Ne ripercorre ora la lunga e travagliata storia Riccardo de Sanctis che, mutuando le parole di Castellina, firma l'asciutto documentario Manifesto. Il quotidiano del muretto, un dvd acquistabile in edicola o visibile in streaming a pagamento sul sito vimeo.com.
Archiviata l'ultima, dolorosa crisi del 2012, con la liquidazione coatta, il serio rischio di chiusura e la fuoriuscita di alcuni fondatori e firme importanti (come Rossana Rossanda, Valentino Parlato, Vauro…), «adesso il Manifesto si rinnova nella continuità e offre ai suoi lettori e sostenitori un luogo di confronto per la sinistra plurale. Noi dobbiamo farcela da soli. Come sempre, da più di quarant'anni. Siamo ben allineati e ben intenzionati ad assicurarne al Manifesto altri quaranta», scrive il direttore Norma Rangeri nella presentazione del cofanetto, che raccoglie «interviste, filmati e immagini di repertorio da via Tomacelli a via Bargoni, ragionando su un'esperienza politica ed editoriale unica», con contributi di redattori storici e analisi di giovani cronisti.
Filo rosso, oltre al comunismo, che sopravvive almeno nella testatina di prima pagina, è la ruggine, il dissenso, il dibattito imperituro, quasi un peccato originale che ancora oggi i giornalisti scontano, a 45 anni dalla radiazione del Pci dei loro "progenitori". Persino nel documentario non mancano le voci critiche, i commenti puntuti, ma la lamentela è comunque indice di salute, per quanto precaria: il panegirico suonerebbe come un epitaffio, e l'agiografia è riservata ai defunti. «Ci accontentiamo di forze limitate e inesperte, ma fino in fondo disinteressate e impegnate, scontando difetti e lacune certe», scriveva Luigi Pintor nel primo editoriale. «Non ci affidiamo ad altro che a un lavoro collettivo: a una passione militante: a ciò che molti chiamano utopia estremismo e noi fiducia nelle masse e tranquilla coscienza».
Negli anni, il «Manifesto» è stato pure fucina creativa e bottega di talenti grafici, giornalistici e letterari, come Domenico Starnone ed Ermanno Rea, che interviene nel film: «La crisi del quotidiano pone una domanda a tutta la sinistra italiana: "Chi siamo?... Che ci stiamo a fare qui?"», provocazione accolta e rilanciata anche dal giurista Stefano Rodotà, che fa il punto sulle attuali "battaglie di sinistra", dall'ambiente ai beni comuni. Questa, in fondo, è una storia di resistenza: la storia del muretto più resistente del Muro, degli espulsi più longevi del partito, dell'eccezione che sopravvive alla regola, del "giornale copertina" ma serissimo, del quotidiano anomalo diretto dalla Norma. «Non bisogna illudersi di raggiungere chissà quale traguardo – sosteneva Pintor –. Se il percorso lo fai bene, questo è già un traguardo, è un lievito che poi sedimenta... ».

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Riccardo de Sanctis, Manifesto.
Il quotidiano del muretto, 74', € 9,90

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