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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2014 alle ore 08:20.

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La si potrebbe chiamare filosofia dell'angustia. È il pensiero che nasce dalla privazione della libertà fisica. Da Boezio a Campanella, da De Sade a Gramsci: c'è chi è stato capace di amare la sapienza anche nel fondo di un carcere. Prigionieri e filosofi, o filosofi perché prigionieri, allievi, per forza o per scelta, di quel primo maestro recluso, di Socrate, che alla fuga preferì la verità.
Nel catalogo di pensatori che conobbero l'inferno, Balthasar Isaac Orobio De Castro merita un ruolo di tutto rispetto. Nato in una famiglia ebraica costretta a convertirsi al cattolicesimo, Orobio studiò filosofia e medicina, e divenne professore di metafisica all'Università di Salamanca. Nel 1654 fu arrestato, con l'accusa di praticare in segreto il giudaismo. Gli inquisitori lo tennero quattro anni in un bugigattolo in cui non poteva neppure muoversi, e gli inflissero la tortura, perché confessasse e salvasse l'anima. Fu rilasciato, fuggì dalla Spagna, tornò ufficialmente alla fede ebraica, ad Amsterdam, dove divenne membro influente della comunità d'Israele. Nella liberale Olanda potè scrivere opere polemiche contro il cristianesimo, che Myriam Silvera pubblica ora in un'eccellente edizione critica. Fino alla morte, l'angoscia del carcere lo tormentò. Confidò i ricordi a chi gli era vicino. «Son yo Don Balthasar Orobio?», s'era chiesto più volte nelle mani degli aguzzini. E per difendersi dalla follia, e ritrovare se stesso, aveva inscenato in galera dibattiti metafisici, in cui poneva questioni, rispondeva e giudicava la diatriba. Tutto da solo, perché la mente, talvolta, è più grande di qualsiasi angustia.
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Isaac Orobio De Castro, Prevenciones divinas contra la vana idolatría de las gentes, edizione critica con introduzione di Myriam Silvera, premessa di Gianni Paganini, Olschki, Firenze, pagg. 220,
€ 35,00

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