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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2014 alle ore 08:21.

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L'osservazione è fin troppo facile. Ma è un fatto che Sabino Cassese ha pubblicato poco più di un anno fa, sempre con il Mulino, un saggio intitolato Chi governa il mondo?. Adesso è in libreria il suo nuovo lavoro: Governare gli italiani. Come dire che per l'eminente studioso, oggi giudice della Corte costituzionale, interrogarsi su dove va il mondo è forse più semplice, o meno spinoso, che domandarsi dove va lo Stato italiano. Al di là della battuta, il grande merito di Cassese sta nell'aver riproposto, spiegandole anche al lettore non specialistico, tutte le ragioni storiche e politiche che in Italia rendono debole lo Stato e poco efficienti i governi.
S'intende peraltro che proporre una storia delle istituzioni e dei loro limiti presuppone la capacità di rendere accessibile una materia che per sua natura è molto complicata. Ma nel momento in cui si parla, spesso a sproposito, di Terza Repubblica e si tende a banalizzare il termine «cambiamento» senza approfondirne i passaggi e gli obiettivi ultimi, ecco che la ricognizione di Cassese ci riporta alle radici del problema. Governare gli italiani è un testo che dovrebbe essere collocato sul comodino di ogni buon politico, soprattutto dei più giovani e dinamici che hanno voglia di fare. Perché fare senza conoscere talvolta produce una miscela pericolosa.
Come diceva Bismark, costruttore della Germania unita, riferendosi al suo collega Crispi, uno dei protagonisti del Risorgimento e in quel tempo primo ministro: «Io avevo dietro di me lo Stato e l'esercito, lui non aveva nulla». Il che aiuta a capire le contraddizioni dell'Italia «Stato senza nazione». E spiega anche – come nota acutamente Cassese – lo strano miscuglio per cui, fra la fine dell'Ottocento e la prima parte del Novecento, il nostro diventa un Paese in cui il senso civico e delle istituzioni resta basso, ma è forte il «senso ideologico dello Stato»; al punto che s'importano proprio dalla Germania bismarkiana una serie di teorie sullo Stato forte che s'innestano molto male nella tradizione italiana, creando le premesse di disastri successivi. Al fondo di tutto, sembra suggerire l'autore, c'è una caratteristica che sfida i secoli: la «continuità instabile», un modo ambiguo e opaco di stare su quel crinale in cui politica e istituzioni s'intrecciano. Un precario «continuismo» che attraversa la storia dello Stato dalla dittatura alla democrazia, senza mai risolvere il nodo principale, ossia la distanza che separa il cittadino dalle istituzioni: sullo sfondo di quella diffidenza reciproca che resta uno dei fenomeni più irritanti e persistenti della nostra vita collettiva.
Non a caso Cassese parla di «mancata emancipazione dello Stato» e così scrive: «Porosità dello Stato, sua natura intrinsecamente corporativa, sua incapacità di rendersi autonomo rispetto agli interessi costituiti, quelli economici e quelli elettorali, penetrazione di questi ultimi nella macchina statale: questo è il... tratto caratteristico dei poteri pubblici in Italia». Non è l'unico naturalmente nell'analisi dello studioso, ma merita la citazione perché è di quelli che meglio resistono a qualsiasi slancio riformistico, peraltro già debole di suo. Gli «anti-italiani» erano coloro (da Gobetti ai Rosselli agli illusi di Giustizia e Libertà e, in qualche caso, del Partito d'Azione) che vedevano nella riforma morale dei loro concittadini la chiave per essere realmente europei. Furono messi in minoranza dagli «arci-italiani» quanti pensavano e pensano che le cose vanno bene così come sono e che l'Europa dovrà farsene una ragione. Ma il tempo passa, l'Unione non riesce a integrarsi sul piano politico e la globalizzazione getta un'ombra sinistra sullo stesso futuro della democrazia.
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Sabino Cassese, Governare gli italiani. Storia dello Stato, il Mulino, Bologna, pagg. 416, € 28,00

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