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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2014 alle ore 08:20.

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«Ho molta amicizia per i morti», scrisse una volta il sommo filologo Gianfranco Contini: «un po' perché il più del nostro tempo passerà, se non con loro, almeno dalla parte loro; un po' perché siamo noi che li facciamo ancora vivere, che prestiamo loro un po' della nostra vita». Sarà per questo che la buona memorialistica, pur trapuntata di defunti, ci rincuora sempre? Accade anche con il memoir di Gaia Servadio, giornalista, scrittrice, melomane, pittrice, espatriata a Londra negli anni Cinquanta, allieva della prestigiosa Chelsea School of Arts. Non inganni lo spazio riservato al suo libro dalle testate scandalistiche, quasi fosse soltanto una miniera di gossip (il vero padre di Luchino Visconti, le amicizie maschili di Piero Sraffa). C'è invece molto altro. Uno spaccato di storia novecentesca, traboccante di spunti (anche se talvolta ci si imbatte in errori imperdonabili: Carlo Casalegno non fu «gambizzato», bensì ucciso dalle Br).
Innanzitutto, il privilegio dell'anagrafe. D'accordo, Gaia è stata fortunata: figlia di un chimico caduto in disgrazia per le «leggi razziali», diventerà proprietaria di un fiabesco castello scozzese, grazie al primo matrimonio con William Mostyn-Owen, direttore di Christie's. Però è anche vero che appartiene alla generazione più felice del secolo scorso, quella degli attuali settantenni. Sfiorata dalla guerra, s'è affacciata alla vita adulta in un'epoca gonfia di speranze e porte aperte, mentre il «mondo di ieri» sprigionava i suoi tardi bagliori. Com'era bello vagabondare in una Costa Azzurra «vuota e meravigliosa», alla ricerca della spiaggetta immortalata in Tenera è la notte, contemplare Venezia non ancora stuprata dalle grandi navi, immergersi negli «ultimi fuochi» dell'Inghilterra edoardiana!
Poi ci sono gli incontri. Ci vorrebbe un abaco per enumerarli tutti. La stretta di mano fra Primo Levi e Philip Roth. Sraffa e Robert Lowell, colti sul passo estremo. La cena in cui le capita di conoscere Edmund Wilson, il critico letterario amico di Fitzgerald, da lei amatissimo. Stephen Spender, che l'intrattiene con ghiotti aneddoti su Auden, Isherwood e Jean Ross, alias Sally Bowles, la fricchettona ante litteram protagonista di Addio a Berlino. La lunga lettera ricevuta da Isaiah Berlin, sul Macbeth diretto da Abbado. Mario Pannunzio, Nicola Chiaromonte e Mary McCarthy. Difficile non provare un pizzico d'invidia, di fronte a tanta grazia!
Il côté ebraico. Gaia rievoca sobriamente l'infanzia padovana, rabbuiata dai provvedimenti antisemiti, e la tomba vuota della nonna, inghiottita dai campi di sterminio. Non tralascia Israele, scoperto durante la Guerra dei sei giorni (1967) come inviato della «Stampa». Sarà una «vittoria persa», per il giovane Stato, incapace di amministrare la pace. Molto più attraenti, secondo lei, quegli ebrei eretici e anticonformisti ormai in via di estinzione, riesumati in uno spiazzante volume di Enzo Traverso (La fine della modernità ebraica, Feltrinelli). Onde il suo disdegno per l'imperante «consumismo dell'Olocausto», con i musei della Shoah spuntati come funghi, «fiore all'occhiello di ogni sindaco – specie se fascista o ex fascista –, dagli Appennini alle Ande».
Il suo schietto laicismo è rinfrancato dai molti gay e libertini che popolano il libro. In Medio Oriente, perlustrato in lungo e in largo, rimane atterrita dalla cacofonia di «profeti, sermoni, lamenti, chiese e moschee, sinagoghe e templi, cibo kosher e incensi». Meglio l'ateismo! Tanto più che aveva incrociato anche la religione cattolica, da bambina, nel collegio del Sacro Cuore di Padova cui s'era iscritta dopo la chiusura delle scuole pubbliche agli israeliti. E chiunque abbia sperimentato la morbosità del clericalismo in salsa veneta, non ha bisogno di morire per conoscere l'inferno.
Gaia è una donna di sinistra, sempre in bilico fra potere e contropotere, salotti aristocratici e piazze ribelli. È amica di Giangiacomo Feltrinelli, Pajetta e Napolitano, grazie a Danilo Dolci scoprirà la Sicilia (scriverà una biografia del boss Angelo La Barbera, incontrato da sola al confino di Linosa), reputa Blair più infausto di Berlusconi e Craxi. Ma non rinuncia alla civetteria di svelarci una liaison con l'Avvocato, che l'accoglieva a bordo del suo yacht «in mezzo a un mare meraviglioso». Lui «non credeva in nulla», però sapeva «affascinare anche i sassi». Chissà cosa pensa davvero di lei Tom Wolfe, il fustigatore dei «radical-chic», che Gaia afferma di aver comunque frequentato a New York, insieme a Norman Mailer.
Eppure, nonostante queste smagliature, come non restare contagiati dal suo amor vitae, il miglior contravveleno alla noia? I sontuosi ricevimenti in cui lei primeggia rammentano quelli del Grande Gatsby, non i cupi festini allestiti nelle taverne delle villone brianzole, infiocchettati di veline libro-repellenti. Per chi tende all'epicureismo, lo stile è tutto. Per questo la sua esuberante autobiografia brilla come uno degli ultimi reperti di quell'élite anglofila ormai erosa dalla società di massa e sferzata dal vento del populismo. Forse un giorno ne sentiremo nostalgia, espugnati dai nani e dalle ballerine. «Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».
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Gaia Servadio, Raccogliamo le vele, Feltrinelli, Milano, pagg. 446, € 22,00.

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