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Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2014 alle ore 09:23.

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È la storia di un uomo solo nella propria cucina, squattrinato, con velleità da sceneggiatore, una pila di piatti sporchi nel lavandino e, in testa, l'obiettivo di cucinare un hamburger che avesse un'anima – e guadagnarci dei soldi. È lì, nel suo bilocale di Los Angeles, che Adam Fleischman ha architettato la ricetta del suo Umami Burger, provando e incrociando diversi ingredienti: salsa di soia, acciughe, tartufo, costose qualità di funghi, cipolle caramellate, pomodori arrostiti. Ha aperto cinque anni fa nel quartiere di La Brea, striscia di confine tra il viavai di cravatte del distretto finanziario e le suole consumate degli skater della zona. Era un ex locale di cucina coreana, e Fleischman lasciò gli arredi più o meno come erano, con un'aria orientale. Agli avventori serviva deliziosi hamburger: otto dollari al pezzo, oggi saliti a dodici. Quarantamila dollari di investimento, trenta posti a sedere. L'adrenalina di una scommessa, ma con una moglie accanto e un figlioletto di tre anni a cui pensare. La fila sul marciapiede cresceva di settimana in settimana. Sono arrivate le celebrities, e molti chef che dedicavano il giorno libero a provare il suo esperimento (la ricetta è rimasta segreta: la carne viene insaporita con una polvere speciale, naturale, che ha creato la fama di Umami). «Avevo venduto la mia partecipazione in un wine bar e ho aperto un posto piccolo. Abbiamo avuto subito un buon seguito: semplicemente, alla gente piaceva il nostro hamburger». Oggi Adam Fleischman è a capo del colosso del panino raffinato d'America: quindici locali nell'area di Los Angeles, tre fra San Francisco e Oakland, uno a Palo Alto. Poi è partita la conquista dell'altra costa degli Stati Uniti, con le aperture a New York e a Miami.

Mister Umami ha ispirato il nome del suo ristorante al "sentimento" con cui i giapponesi chiamano il quinto gusto, da una teoria di uno scienziato di nome Kikunae Ikeda che a inizio Novecento ha affiancato il "saporito" a "dolce", "salato", "amaro" e "acido". Fleischman è diventato rapidamente milionario rimanendo ferreo nei suoi principi. L'impero cresce, ma con una promessa: «Mai saremo una catena di fast food». Piuttosto, in ciascun ristorante, l'hamburger si declinerà tra diversi ingredienti. E i piatti sul menu non avranno mai lo stesso sapore.

Nessuna cordata o gruppo economico: dietro il nome del ristorante c'è lui, un uomo che ha "annusato" come ricavare una nicchia nell'universo di chi corre a fondare franchising. «Certamente non ci fermeremo, stiamo valutando progetti di espansione globale. E non stupitevi se sentirete la notizia che ci stiamo avviciniamo all'Europa...», anticipa Fleischman a IL.

Le catene di hamburger "salutari", dove il piatto nazionale americano è pensato con amore – e cioè con ingredienti di qualità – stanno diventando molto popolari nelle grandi città statunitensi, lì dove imperversano i cultori del cibo: dalle californiane In & Out e Super Duper fino a Shake Shack, che si è fatta spazio nell'America degli hamburger-spazzatura e a poco prezzo. Di pari passo, ecco la rivoluzione del cibo che impera nei ristoranti e nei supermercati attenti a tutto ciò che è biologico. Il regno dell'inventore di Umami, partito piccolo per diventare l'avamposto dell'hamburger gourmet per eccellenza, si è fatto strada in questo contesto, con il suo macinato saporito, gli ingredienti insoliti, il pane scelto in un forno portoghese di Los Angeles («Posso dire che l'Europa ha ispirato molto il mio progetto», ricorda. «Stavo leggendo un libro di cucina francese durante un viaggio nel Vecchio continente quando ho avuto l'idea di Umami»). C'è poi la sua faccia, quella di un self-made man alla conquista del sogno, in bermuda e camicia floreale. A California dude, come dicono qui. Un bonaccione, con idee brillanti. «Sono cresciuto a Washington, poi Los Angeles mi ha accolto. Giravo per ristoranti e mi rendevo conto che a questi luoghi mancava qualcosa. Avevo in mente un progetto insolito. Non pensavo a un marchio "vecchia scuola", ad aprire un posto vintage: volevo che Umami diventasse globale, ma in modo intelligente. Le catene sono lontane dalle comunità, dai quartieri. Sono semplicemente tutte uguali. I nostri ristoranti dovevano invece essere vicini alla gente, fare parte della vita della strada». Così, tra le "specialità del giorno" del menu, si può scegliere un panino, e un dollaro del suo costo verrà donato alla comunità homeless. «Siamo diventati grandi, ma ancora possiamo controllare la qualità di quello che serviamo. Dietro a ogni apertura c'è il lavoro di un team di cinquanta persone. Siamo una squadra che si è dedicata a fondo a questo progetto», spiega Fleischman che ha ricavato spazio per la nostra intervista tra uno dei suoi tanti viaggi da una costa all'altra degli Stati Uniti (conta cinque nuovi ristoranti in via di realizzazione da Washington a Las Vegas, diversi progetti con nuovi protagonisti, una gelateria dove si sperimentano ingredienti insoliti come l'assenzio e una pizzeria a Santa Monica).

Umami doveva essere qualcosa di unico. «Il Rinascimento del burger», scrissero i giornali salutandone la nascita. «Umami Tsunami», ha titolato l'Independent. «Pensavo a qualcosa di moderno, che prendesse ispirazione e influenze da diversi Paesi. Ricercavo la straordinaria capacità di un piatto di diventare unico se accostato a determinati ingredienti». La sua storia personale racconta di un passato prima nel mondo finanziario, poi nel commercio di vini (con un viaggio in Bordeaux, rivelatore), un'esperienza che gli ha permesso di allenare il palato. Ora ha detto addio alla scrittura, fa l'imprenditore e, nonostante il suo fiuto creativo culinario, mai si riterrebbe uno chef. Piuttosto, un pioniere. Da Umami dolce e salato si compenetrano, senza nessuna etichetta o linea di demarcazione. Fatto insolito in un locale che vende hamburger: il vino è sul menu, e la taglia del panino, servito su un piatto di ceramica bianca è ridotta rispetto agli standard Usa. Un manifesto che si discosta dall'era dei megaburger e, forse, anche dall'icona dell'America obesa. Le verdure, poi, hanno il sapore di quelle dell'orto: una svolta.

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