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Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2014 alle ore 12:03.

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Cesare Segre si colloca nella storia della filologia italiana come dentro un romanzo familiare. All'inizio c'è il patriarca, Pio Rajna: il nostro maggiore romanista. Da lui discende l'allievo Santorre Debenedetti, zio di Segre. Dietro Debenedetti viene Gianfranco Contini. Discepolo di Contini, e di Benvenuto Terracini, magnificamente impiantato in così prestigioso albero genealogico, tra rami di parentela e di collaborazione, segue con genialità di erede Cesare Segre: filologo senz'altro, critico del testo ed editore di testi; ma anche storico della lingua, teorico della letteratura, critico letterario, promotore di aggiornamenti metodologici declinati dalle "strutture semiologiche", studioso interessato alla linguisticità delle opere pittoriche («molte volte il linguaggio visivo svolge una funzione quasi identica a quello verbale, e viceversa»). Segre non si accontentò mai dei confini ristretti di una ben precisa appartenenza accademica. Esorbitò sempre, dialogando «con tutte le discipline umanistiche», ha scritto Gian Luigi Beccaria nell'introduzione al Meridiano dedicato alla sua Opera critica (a cura di Alberto Conte e Andrea Mirabile con un saggio introduttivo di Gian Luigi Beccaria, Mondadori, pagg. 1.572, € 60,00).

Questo Meridiano è il testamento di Segre. Non solo perché è stato organizzato dallo stesso autore, con la collaborazione di Alberto Conte e Andrea Mirabile; ma soprattutto perché la sua architettura, che in dodici sezioni impalca metodi e testi critici, e si conclude con un frontone intitolato Etica e letteratura, è stata pensata come «una specie di autobiografia».

Già nel 1999, Segre aveva rivoluzionato il genere autobiografico, smontandolo e reinventandolo. Aveva pubblicato Per curiosità, e si era raccontato ora in prima, ora in terza persona, in tondo e in corsivo; e teatralmente, attraverso la finzione dialogica di autointerviste. Si era riparato dietro la modestia del titolo. Ma aveva aggiunto: «La mia attività di critico e di teorico della critica mi ha … reso partecipe di episodi culturali determinanti e fatto frequentare studiosi che a questi episodi hanno dato un apporto anche notevole. Forse questi motivi possono legittimare la mia prova autobiografica». L'esercizio della funzione critica è il "frutto" della biografia, così come la biografia è a sua volta il "frutto" delle scelte di lavoro. Dietro tale concorrenza si nasconde un bisogno di raccontare, una vocazione di scrittore non sempre nascosta e dissimulata. Per averne conferma, si vada a frugare nei dettagli della produzione saggistica.

Fra i "trucioli medievistici" raccolti nel volume Dai metodi ai testi. Varianti, personaggi, narrazioni (Aragno, 2008), Segre illustrava un episodio comico del «romanzo di Tristano». L'adultera Isotta gioca d'astuzia. E raggira il marito. Da lui è costretta a giurare, contro ogni evidenza, di non essere l'amante del nipote Tristano. Lei si è però accordata con il giovane che, travestito da mendicante lebbroso, l'ha portata a cavalcioni attraverso le insidie della palude. Scaltra, dichiara solennemente: «Giuro che fra le mie cosce non è mai entrato alcun uomo, se non il lebbroso che mi ha preso sulle spalle per attraversare il guado, e il re Marco, mio sposo». Dice la verità, pur mentendo spudoratamente. Non stupisce la mossa di Segre, che di un "atto critico" ha fatto un "atto d'invenzione". Ha ritagliato il saggio di lettura. L'ha ricontestualizzato all'interno del diario fittizio di un'adultera astuta, e l'ha ripubblicato come «esercizio dell'immaginazione» tra le Dieci prove di fantasia (Einaudi, 2010): insieme al racconto allegro della scandalosa Cunizza che accusa quel "mattacchione" di Dante Alighieri d'averla eletta nel Paradiso, bruttina com'era, in mezzo ai beati del cielo intestato alla dea della bellezza, per farne una "santarella" e una "iettatrice".

L'architetto della propria Opera critica ha voluto che essa fosse, nel suo insieme, un'altra «specie di autobiografia»: il racconto di una grandiosa avventura intellettuale scandita da saggi opportunamente scelti e predisposti, secondo le tappe di un'intera vita, lungo l'arco di quel secondo Novecento improntato dal paradigma strutturalistico che l'ha visto protagonista di varie esperienze e imprese culturali, in continuo dialogo con Benveniste e Jakobsòn, Bachtin e Lotman. Funzionale all'operazione si rivela lo stile asciutto e controllato, che nulla concede al superfluo e agli automatismi dei lettori; e programmaticamente rifugge dalle messinscene sciamaniche e dalle derive orfiche talvolta di moda, soprattutto in Francia. Ogni parola è soppesata, sottoposta al vaglio della ragione e del rigore. Se accoglie dal lessico critico di Julia Kristeva il termine "intertestuale", si sente subito in dovere di ampliare il concetto, di distinguere e precisare. E così gli affianca "interdiscorsivo": «catalogando, con il primo, i rapporti tra testi scritti; con il secondo, le relazioni tra un testo e gli elementi dell'universo del discorso, non collegabili a una fonte precisa».

Segre sentiva su di sé il prestigio dei suoi maestri. Si considerava loro "figlio", con responsabilità. E tuttavia non mancò di marcare la sua autonomia di giudizio. Accadde con il "padre" Contini, dal quale aveva ereditato la critica delle varianti d'autore. Non se la sentì di seguire il maestro nell'entusiasmo incondizionato per gli sperimentalismi esasperati di Pizzuto, spinti fino al limite zero della sintassi e alla "pietrificazione" dello stile. Scrisse il saggio L'Hypnopaleoneomachia di Pizzuto. E concluse che ormai il questore in pensione aveva raggiunto un «virtuosismo che ci si stanca di ammirare». Contini si risentì. Reagì come un padre tradito.

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