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Questo articolo è stato pubblicato il 30 marzo 2014 alle ore 08:14.

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La storia della quadreria estense, delineata con chiarezza nella mostra di Venaria Reale curata da Stefano Casciu e Marcello Toffanello, è caratterizzata da alterne vicende, più di quanto non sia accaduto ad altre illustri collezioni di essa contemporanee. Nell'arco di oltre due secoli, dall'età del duca Alfonso I (1508-1534), prolifico mecenate, alla così detta "vendita di Dresda" del 1746, coincidente con lo smobilizzo dei cento maggiori capolavori di pittura della raccolta e determinata dallo stato di prostrazione finanziaria del ducato di Modena e Reggio, fu un susseguirsi di commissioni, acquisti, alienazioni e forzose cessioni. Il consuntivo è tuttavia contraddistinto dal persistere di un complesso magnifico, conservato nella Galleria Estense di Modena, attualmente chiusa al pubblico per danni causati dal sisma del 2012. In tal senso la rassegna allestita a Venaria, oltre a contribuire alla diffusione della conoscenza di questa pinacoteca, vuol essere un appello a che il patrimonio pittorico del museo emiliano e dell'intera ampia zona colpita dal terremoto, possa confidare su un capillare recupero, di cui danno testimonianza i restauri da poco ultimati di due pale d'altare provenienti da Mirandola.
A conclusione della visita alla mostra, dove le opere sono intenzionalmente esposte in sale di non grandi dimensioni, per meglio scandire l'evoluzione e la diversificazione del gusto degli Este, il dato che risalta è il passaggio dal prevalere di soggetti profani, di allegorie di non sempre facile soluzione, di tematiche che stringono un nesso con la cultura letteraria e la poesia ariostesca, alle iconografie sacre e decorative, attraverso la stagione del mecenatismo internazionale di Francesco I, il primo duca nato a Modena dopo la devoluzione di Ferrara alla sede pontificia, imposta da Clemente VIII Aldobrandini nel 1598. L'annessione papalina di Ferrara fu resa possibile perché Alfonso II, alla cui corte aveva soggiornato anche il Tasso, era morto senza eredi diretti, sì che il ducato, passato nelle mani del cugino Cesare dopo essere stato privato di Ferrara, si ridusse alle città di Modena e Reggio. A questo frangente risale l'episodio della decurtazione della quadreria, con l'appropriazione, da parte del cardinale Aldobrandini nipote del papa, dei Baccanali di Bellini, Tiziano e Dosso, commissionati da Alfonso I per i camerini, che erano situati nel corpo di fabbrica che collegava il castello al palazzo ducale. In origine vi erano incastonati anche i rilievi di Antonio Lombardo oggi a San Pietroburgo, che dopo essere rimasti per secoli in deposito a Sassuolo, furono alienati nell'Ottocento. Questa duplice dispersione fu il colpo più duro inferto alle collezioni estensi insieme alla vendita di Dresda. Appare pertanto evidente che la ricomposizione della quadreria e delle raccolte, ammesso sia possibile, può compiersi solo sul filo dell'immaginazione, grazie a un processo volto a stabilire il fascino di un insieme che nel 1740 aveva fatto esclamare Charles de Brosses, durante il viaggio in Italia: «è certamente la più bella galleria esistente in Italia, non perché sia la più ricca, ma perché è quella meglio ordinata e tenuta». Il commento è di sei anni anteriore alla vendita dei cento capolavori ad Augusto III di Sassonia, per la cifra sbalorditiva di cento mila zecchini. Nel contingente spiccavano la Notte e la Pala di San Giorgio di Correggio, il Trionfo di Bacco di Garofalo, il Cristo della moneta di Tiziano, la bella tela dello stesso Garofalo con Venere e Marte davanti alle mura di Troia, eccezionalmente concessa in prestito dalla Gemäldegalerie insieme alla Sacra famiglia e santi dello Scarsellino. Oltre ai cento capolavori trasferiti a Dresda, altri, per fortuna, ne rimasero a Modena, per esempio Venere, Marte e Amore, tela commissionata nel 1633 dal duca Francesco I al Guercino, nella quale il protagonista è Cupido che sta per lanciare una freccia contro chi osserva, quindi anche contro di noi, realizzato con straordinaria abilità illusiva – il catalogo dice da trompe l'oeil – mentre Venere, complice, gli dà corda puntando, con pari efficacia, l'indice.
Tra i mecenati della casata d'Este, Francesco I fu il più dotato e il più aperto del Seicento. Diede un forte impulso alla città di Modena e alla reggia estiva di Sassuolo, spinto da un'ambizione che gli consentì di ottenere i due più insigni dipinti moderni tuttora presenti nel museo: il suo Ritratto di mano di Velázquez, realizzato a Madrid nel 1638, e il busto-ritratto di marmo che, dopo insistenti perorazioni e a carissimo prezzo, Bernini acconsentì di scolpirgli.
Francesco era succeduto a Cesare. Considerato "imbelle e inetto" e preoccupato unicamente di «giuocare alla rachetta, a palamaio, andare con la carozza a vagheggiar dame», in realtà a Cesare va riconosciuto il merito di avere messo in salvo molti quadri già a Ferrara, e di aver almeno tentato di «rifar Ferrara a Modena». Il patrimonio sul quale poteva contare si era nel frattempo molto assottigliato. Ciò non di meno egli aveva nutrito grandi aspirazioni e il desiderio di riproporre la stessa concomitanza dei due massimi pittori del momento, Annibale Carracci e Caravaggio, che aveva preso forma nella appella Cerasi in Santa Maria del Popolo a Roma. Il sogno non venne esaudito.
La quadreria estense beneficiò di nuove accessioni che bilanciarono un po' le perdite, quando, nel Settecento, entrarono innumerevoli dipinti provenienti dalla soppressione degli enti religiosi, in parallelo con il vasto sommovimento che interessò una vasta porzione dell'Italia giuseppina.

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