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Questo articolo è stato pubblicato il 30 marzo 2014 alle ore 08:14.

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Witold Gombrowicz è stato, con Witkiewicz e Bruno Schulz, uno dei tre grandi che hanno profondamente influito sulla cultura polacca del Novecento, indirizzandola anche fuori dall'ambito strettamente letterario. Di quelle atmosfere allucinate, ad esempio, ha risentito il teatro di Kantor, il quale ne ha curato non a caso le illustrazioni di Iwona, principessa di Borgogna. La scrittura di Gombrowicz è sottilmente onirica, non visionaria come quella di Schulz: la sua pagina non offre un fuoco di fila di invenzioni surreali, ma un'immagine lievemente deformata della vita, che si increspa e si scontorna in un perturbante gioco psichico.
Al centro di Pornografia, il romanzo su cui ha lavorato Ronconi in uno di quei laboratori estivi ormai per lui assai più fertili dei grandi spettacoli allestiti con dispiego di mezzi, c'è la strana ossessione pseudo-erotica di due signori, ospiti in una casa di campagna, fissati nel voler creare un rapporto di attrazione fra un ragazzo e una ragazza, di fatto del tutto indifferenti l'uno all'altra. I due li spiano, cercano di cogliere nei gesti più insignificanti – persino nello schiacciamento di un verme – il segnale di una segreta intesa che non esiste. E per stabilire una qualche sorta di torbido legame fra loro, arrivano addirittura a spingerli a un omicidio.
C'è, ovviamente, qualcosa di malato, di indicibilmente distorto e pervertito in questo esercizio di voyeurismo inerte, frustrato nella sua stessa impossibilità di accendersi per il mancato coinvolgimento di coloro che ne sarebbero l'oggetto, ma non per questo rassegnato e domo, anzi ancor più teso a escogitare gli espedienti per raggiungere il suo scopo. E tuttavia questa perversione gelidamente intellettuale ha poco a che fare con l'impulso sessuale, e chi ne è mosso non è ritratto come semplice vizioso: il vizio, in questo caso, non è individuale, ma connesso a qualcosa di più ampio. E sta nell'occhio e nella coscienza di sé, non nelle viscere.
Il vero nucleo del racconto è in effetti, fin dall'inizio, la realtà che si trasfigura e si svuota continuamente, la realtà che sembra implodere, divorare se stessa precipitando nell'abisso di un nulla incombente. A far da filo conduttore alla vicenda è specialmente questa inquieta evanescenza del reale, che pare anche contenere un giudizio morale su di esso: vi è sempre qualcosa di "sospetto", di oscuramente osceno in questa materia umana che non è palesemente all'altezza di se stessa, che si trasforma di continuo, inconsapevolmente, in qualcosa d'altro, forse persino nel proprio contrario, nel proprio lato buio, intimamente "scandaloso".
Per portarla alla ribalta Ronconi ha utilizzato la tecnica, ben collaudata fin dall'exploit gaddiano del Pasticciaccio, di affidare ai personaggi anche le parti narrative, inducendoli a descriversi, a tratteggiare come da fuori i propri comportamenti, commentandoli con le parole dell'autore – fedelmente mantenute – ma secondo le proprie personali intonazioni interpretative. Ne viene fuori, come sempre in simili circostanze, un curioso miscuglio di oggettività e soggettivismo, condito da qualche tocco di ironia e dal taglio, stavolta, vagamente caricaturale impresso alle figure dei due ragazzi. Nello spettacolo che ha debuttato la scorsa estate al festival di Spoleto non c'è una scena definita: a disegnare e ridisegnare lo spazio sono solo le architetture verbali del testo, e alcuni pannelli mobili che scorrono ai lati e sul fondo. Non c'è altro apparato, perché l'azione non può essere ambientata in un preciso luogo fisico: essa si svolge – e insieme si annulla e si cancella senza sosta – in una sfera tutta mentale. La collocazione astratta giova d'altronde a valorizzare la natura eminentemente letteraria dell'operazione. Il testo è bellissimo, ma difficile da seguire, e ancor più difficile da rendere teatralmente, anche perché non ha i ritmi travolgenti del linguaggio gaddiano.
A dargli spessore e suggestioni, oltre all'aguzza lettura del regista, è l'impeccabile qualità della recitazione, con uno straordinario Paolo Pierobon nei panni del concitato, febbrile Federico, affiancato dal bravo Riccardo Bini che è Witold, ovvero l'ambiguo "doppio" dello scrittore. Spicca, fra gli altri, soprattutto la magnifica Valentina Picello nella breve ma alta caratterizzazione della moribonda Amelia, una creatura né giovane, né vecchia, un puro concentrato di misteriosa energia spirituale.
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Pornografia, di Witold Gombrowicz, regia di Luca Ronconi, Milano,
Teatro Grassi, fino al 5 aprile

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