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Questo articolo è stato pubblicato il 30 marzo 2014 alle ore 08:14.

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Compresso in soli cinque giorni, ma pimpante di orgogliosa passione, Uovo Performing Arts 2014 ha dimostrato forse più che in passato (un lungo ieri: dodici anni) quanto Milano sia curiosa di intersezioni artistiche, frammenti danzati e azioni collocate in spazi diversi. Come Solo del collettivo Strasse, capace di radunare alla Stazione Centrale un buon numero di allertati da una serie di sms e poi sguinzagliati lungo binari e sottopassaggi. O come Attore, il tuo nome non è esatto, già nota performance laboratoriale di Romeo Castellucci, tutta tesa a dimostare, in una delle dorate sale di Palazzo Serbelloni, che chi agisce in scena è in realtà posseduto da forze "altre" (qui sataniche) e la sua tecnica non è che accettazione di un'invasata passività.
Invece, al Teatro dell'Arte/Triennale, Tino Seghal, Leone d'oro alla scorsa Biennale Arti Visive, ha presentato (senza titolo) a quattordici anni dal debutto. L'unico interprete, l'americano Frank Willens – meraviglioso ballerino statuario, ignudo e ben disposto a colloquiare con il pubblico –, ci ha ricordato che, nel 2000, la pièce si intitolava Twenty Minutes for the Twentieth Century. Anche se ancora cita la libertà della Duncan, i profili del Fauno di Nijinskij, la Strega della potente espressionista Mary Wigman e le linee pure dell'inconfondibile Cunningham, (senta titolo) purtroppo si dilunga oltre. Cincischia, ci annacqua di spruzzi (come fossero pipì) e termina con una frase volgarotta, «Je suis fonteine»: allusione a una fontana o alla grande Margot Fonteyn? Speriamo nella prima ipotesi.
Altri due frammenti coreutici, sempre alla Triennale, sono stati incorniciati da tre parti di Shirtology del francese Jérôme Bel. Serata magnificamente didattica per comprendere la differenza tra danza e progettualità coreografica. Del confuso Gut Gift, incredibilmente firmato dell'israeliana Yasmeen Godder, autrice di ben altri costrutti – è stata interprete l'insipida e tuttavia sempre premiata Francesca Foscarini. All'opposto, fiera e mai proterva, la bravura di Lorena Nogal e Laia Duran in Reykjavik, parte di una serie dedicata ai territori dallo spagnolo Marcos Morau. Qui, sullo sfondo di un testo parlato con funzione di paesaggio, si evoca la capitale islandese con le sue luci e ombre, mentre le due interpreti bianco vestite s'intrecciano, s'infilano l'una nell'altra con mimiche e fluide prodezze, ma anche facce grottesche nel loro stare a riposo. Senza pretese rivoluzionarie, Reykjavik è godibilmente perfetta.
Infine Shirtology, traducibile in "magliettologia", pièce creata dall'impareggiabile Bel nel 1997, non invecchia nel suo presentare un danzatore maturo, fermo entro un cono di luce e vestito di un fitto strato di magliette che si toglie una ad una. Su alcune è stampata una partitura e lui canta, su altre un'immagine di danza e lui si muove con semplicità. E si ripete, pure, in un replay imposto da un'ennesima maglietta. Grazie ad alcune shirts tinte di soli azzurri e blu, si confutano non solo gli ormai vetusti diktat coreografici, ma anche la finta poesia imposta dal mercato, visto che l'ultima maglietta è griffata... Shirtology è speculazione pura sui meccanismi coreutici, ma è anche ironica coreografia al quadrato, comprensibile persino dai bambini ridenti in sala. Fine della danza diretta? Ma no: il talento superiore di Bel avverte: «senza pensiero il movimento resta "di pancia", autoreferenziale, decorativo o muto».
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Uovo Performing Arts a Milano;
Gut Gift/Yasmeen Godder, Fabbrica Europa, 10 maggio.

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