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Questo articolo è stato pubblicato il 24 aprile 2014 alle ore 07:38.

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A noi ci ha rovinato la Berkel. Intesa come affettatrice d'epoca, possibilmente rossa, con lettere dorate, nuovo status symbol per maschi più o meno alfa degli anni Quindici, forse in crisi di mezza età, con denaro proveniente da benesseri recenti.

Secondo il filosofo Thorstein Veblen e la sua classica Teoria della classe agiata (1899), caratteristica della società industriale (e post) è che, venendo meno la nobilitazione con stemmi e investiture, la mobilità sociale impone precisi status symbol: dunque ecco il consumo vistoso, che non comporta un valore d'uso, ma funzioni meramente segnaletiche, come il collezionismo o l'esibizione di maniere e agi pseudonobiliari. Lo stesso anno in cui usciva la Teoria, sempre il 1899, Wilhelmus Adrian van Berkel, macellaio con la passione per la meccanica, fondava a Rotterdam un primo stabilimento di affettatrici per salumi che portavano il suo nome; azienda tuttora fiorente (oggi di proprietà italiana), ha affinato negli anni una produzione oggetto di modernariati che si credevano finora riservati a new money anni Ottanta, con tavernette e cucine "a isola" pronte per risotti alla fragola e cocktail di scampi; e invece ultimamente ripescati, forse per voghe da pata negra o come bene rifugio, in tempi di rendimenti zero, anche per finanzieri amanti del rischio.

Una Berkel fiammante, «dal design vintage», compare così nel romanzo I diavoli. La finanza raccontata dalla sua scatola nera (Rizzoli) di Guido Maria Brera, capitalista romano arrembante che racconta epopee di finanzieri spietati alle prese con fondi salva-Stati, e titillatori nel tempo libero non di biglietti da visita come in American Psycho ma di grosse macchine per tagliare prosciutti. Nel suo libro, a un certo punto, in un interno da Bret Easton Ellis, ecco non un tapis roulant o strumenti di tortura, ma appunto un'affettatrice. «Su un lato, alcune lettere dorate compongono la parola "Berkel". Un tocco surreale in quell'atmosfera satura di un sapere che risponde a segrete corrispondenze».

Pure nella vita, Brera, ellisiano in camicia stretta da Roma Nord (anche se è di Roma Sud), ricciolone nerissimo e abbronzatura da Argentario e dente sbiancato, Brera ha raccontato a Daria Bignardi alle Invasioni barbariche che lui veramente coi primi soldi si è comprato una Berkel d'epoca; «otto o novemila euro» il valore; in realtà a seconda dei modelli si arriva anche fino a quindicimila.

Con la sua passione per l'insaccato, Brera ha anche contagiato Walter Siti, che col penultimo romanzo Resistere non serve a niente (sempre Rizzoli, 2012) ha vinto come tutti sanno lo Strega, ma soprattutto ha immortalato – anche lui – la Berkel come supremo status symbol per Wolf of Wall Street de Pietralata e Monti Tiburtini. Col primo milione di euro guadagnato, il protagonista del romanzo Tommaso – ispirato proprio a Brera, fondatore del gruppo di gestione del risparmio Kairos – compra per l'appunto una Berkel «da dodicimila dollari, d'antiquariato, con la manovella, perché con quelle elettriche il grasso si scalda e altera il sapore»; e qui il narratore-Siti, un po' psicanalista e un po' semiologo: «Non riesco a vedere il simbolo». E Tommaso-Brera: «Non so; forse perché era un oggetto inutile e mi dava il senso che potevo comprarmi qualunque cosa».

Veblen, il filosofo, aveva sposato la figlia di un industriale e viveva mantenuto in campagna: e dalla campagna spunta un'altra Berkel inaspettata; si era già stati, proprio per IL, mesi fa, in missione nella brutta fazenda (per citare un fondamentale televisivo anni Novanta con Enrico Beruschi) di Massimo D'Alema in Umbria, con cantine e vini senza solfiti, e si erano solo potuti immaginare interni aspirazionali, con faretti incassati. Ma a metà marzo la tragica conferma: un'epica intervista ad Alan Friedman per Piazzapulita; con D'Alema che mostra orgoglioso «questi ulivi, che sa, costano millecinquecento euro», poi cani molossi, che «non abbaiano, ma uccidono direttamente»; infine, dentro, librerie di cartongesso con gli spietati faretti che si erano immaginati nei controsoffitti; le sue resine a terra, le sue travi a vista. E poi eccola, in un angolo: lei, l'affettatrice. «Questa è una Berkel», dichiara trionfante a Friedman. E poi scandisce: «Degli anni Trenta». E ancora: «Restaurata». «E p-e-r-f-e-t-t-a-m-e-n-t-e funzionante», forse con orgoglio esagerato, come esibendo uno Stradivari o una Isotta Fraschini. Ma Friedman spietatamente ridimensiona tutto, chiedendo in italiano: «Ma serve anche per tagliare mortadella?», forse abituato ad altri status symbol, forse non capendo il concetto di consumo vistoso.

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