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Questo articolo è stato pubblicato il 28 aprile 2014 alle ore 11:46.

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Elvira Sellerio (Olycom)Elvira Sellerio (Olycom)

Per molto tempo fu solo una voce che bussava al mio telefono. Cominciò tutto una sera d'inverno. Non ricordo la data esatta. Potrei ricostruirla. Ma non voglio intralci di giorni, mesi, anni. Il tempo dei calendari mal si accorda con una storia che ha a che fare con il fascino, con l'attrazione del mito. Vivevo a Roma, in una mansarda sospesa sul verde di Villa Borghese. L'ingresso dava su Via Margutta. Avevo a disposizione, oltre ad un piccolo terrazzo, uno stanzone riscaldato da un camino.

E, accanto al camino, c'era il tavolo da lavoro, ingombro di manoscritti e bozze di stampa. Lavoravo come redattore in una casa editrice. Stavo rannicchiato sulla macchina da scrivere. Il freddo era inespugnabile, nonostante il fuoco acceso. Quella sera Roma era eccezionalmente sotto la neve. Conservo un'istantanea del fotografo americano Arturo Patten. Le strade della città sembravano piste di pattinaggio. Arturo era passato da casa mia. Mi aveva lasciato una copia della fotografia. Altre due erano per i miei vicini di casa: Alfonso Gatto e Federico Fellini. Arturo era molto amico del regista.

Squillò il telefono. Ebbi la sensazione che il suono scricchiolasse di ghiaccioli. La voce era calda, un frùscio di foglie mosse dal vento. «Amico mio… », disse. Per me era una voce senza biografia. Non l'avevo mai sentita. Eppure mi parlava come fossimo confidenti. Era avvolgente. Così, pensai, doveva essere il canto delle sirene. Faceva levitare, con il suo pausato e sommesso scampanellio di sillabe, miraggi remoti. Non mi chiesi più chi fosse all'altro capo. Mi arresi alla seduzione. E fu un racconto lungo, d'incontri con libri, con collezioni di pitture su vetro, con giocattoli di legno o di latta, con vecchie bambole, con acqueforti e acquetinte. Arrivò al punto. Aveva avuto il mio numero di telefono da Leonardo Sciascia. Mi conosceva indirettamente. Mi aveva disegnato sui resoconti del pittore Bruno Caruso. E ora mi telefonava per ringraziarmi. Avevo pubblicato su «Paese Sera» una recensione a un libro che lei aveva fortemente voluto. E avevo rilevato alcune imprecisioni nel risvolto che faceva da viatico critico. I miei rilievi le avevano consentito di correggere il risvolto di un altro libro in corso di stampa, che si abbinava al precedente. Mi invitò a Palermo.
Era Elvira Sellerio.

Non ci eravamo mai incontrati. Anche se nella casa editrice da lei fondata, insieme al marito Enzo, ero già stato una volta. Ero arrivato trafelato a un appuntamento che mi aveva dato Leonardo Sciascia. Ero in ritardo. Lo trovai seduto su un divano, che parlava con vecchi amici d'infanzia. Rievocavano gli anni di scuola, in paese. Sembravano degli allegri congiurati. Si chiamavano fra di loro con nomignoli. «Nanà», diceva uno. E l'altro rispondeva: «Pepè». Interveniva «Fefè». E si intrometteva «Gegè». Quel divano è ancora lì, nel salottino della casa editrice. Somiglia a uno che compare in una fotografia di Enzo Sellerio, nel soggiorno di famiglia. Nella fotografia si vedono Elvira e la figlia Olivia bambina. Madre e figlia stanno l'una di fronte all'altra, sdraiate. I loro piedi si incontrano sotto un plaid a scacchi. Entrambe reggono dei libri aperti sulle ginocchia. Leggono. Su quel divano, in casa editrice, ho sempre evitato di sedermi. Lo sento occupato dall'allegria di Sciascia e dei suoi compagni di scuola, o dal rumore leggero di pagine sfogliate. (...)

Prendemmo l'abitudine di sentirci per telefono. La voce bussava di sera tardi, non prima delle dieci. Si parlava di libri letti o da leggere. Non solo. Lei era premurosa. Voleva sapere del mio lavoro, delle mie recensioni. L'incuriosiva la vicenda di mia madre: una donna che era nata nel Nebraska, era andata in vacanza in Sicilia, aveva incontrato mio padre, si era sposata, aveva avuto tre figli, e si era separata. Le storie di donne l'appassionavano. Era interessata alla letteratura sulla donna borghese in Sicilia. Sapeva tutto di Elvira Mancuso, una sconosciuta scrittrice siciliana che nel 1906 (l'anno stesso in cui usciva Una donna di Sibilla Aleramo) aveva pubblicato a Caltanissetta un romanzo sul difficile «riscatto» di una donna in una società patriarcale. La Elvira scrittrice si era immaginata di trovare sostegno in Capuana. La delusione fu enorme. Elvira Sellerio, invece, era stata fortunata. Si era incontrata con Leonardo Sciascia e, insieme a lui, aveva dato vita a un'avventura impensabile a Palermo.

Aveva messo al servizio di un «sogno» la sua passione per la lettura. E aveva trovato, nell'editoria, un impegno di lavoro che le permetteva di collaborare, in totale autonomia e in piena libertà, con il marito, editore d'arte, fotografo, grafico di notevole immaginazione tecnica; e con uno scrittore che nell'editoria cercava un prolungamento della sua attività di narratore e saggista e che desiderava costruire una biblioteca ideale, capace di dialogare con la società civile e sostenere battaglie «morali» contro l'anormalità politica del paese. Dall'incontro di una donna, che credeva con forza nel valore ampiamente «politico» della lettura, e di uno scrittore «illuminista», che impugnava la letteratura come dovere e come azione, nacque quel tavolo di lavoro condiviso attorno al quale si è strutturata la casa editrice Sellerio; con il decisivo apporto di Enzo, maestro nel taglio dei formati e nella vestizione dei libri.
Al telefono io ero il Professore, lei era la Signora. E questa convenzione non fu mai dismessa.

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