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Questo articolo è stato pubblicato il 01 maggio 2014 alle ore 13:35.

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Ci sono persone che incontrate alle feste. Di solito hanno un capannello di gente attorno e raccontano una serie di aneddoti che non sono esattamente tristi, o esattamente divertenti, ma possono monopolizzare gli interlocutori per l'intera serata. Lorrie Moore è questo tipo di persona. Poi, nella stessa circostanza sociale, ci sono persone che stanno in un angolo e hanno l'aria di prendere appunti. Quando si avvicinano, ammesso che lo facciano, dicono una battuta che non fa ridere. Voi tornate a casa, vi mettere a letto, ripensate a quella battuta. E ridete. Questa invece è Lydia Davis. Entrambe amate dalla critica americana e con un fan club di lettori che non sente ragioni, tornano in libreria dopo una pausa e con esiti diversi. Nel caso di Moore, la pausa è stata abbastanza lunga: la raccolta (in Italia è uscita per Bompiani con il titolo Ballando in America) risale a sedici anni fa. Ma l'attesa è stata ripagata: gli otto racconti che compongono Bark (Faber) dimostrano perché Moore è in grado di sovrastare il tintinnio e monopolizzare la vostra attenzione in qualsiasi stanza vi ritroviate a parlare di letteratura.

Il vecchio premio Pulitzer Alison Lurie l'ha definita «la cosa più vicina a Cechov che abbiamo», ma il paragone non dice molto: a un certo punto, qualsiasi autore di racconti viene accostato a Cechov. Moore è quella che normalmente viene definita una social observer: se vi lisciate i peli del braccio all'incontrario o avete un accento del sud che riaffiora quando in un grossolano tentativo di giustizia il livello di zuccheri che avete nel sangue vi ricorda che non siete del nord, be', state sicuri che ve lo farà notare. In Debarking, il racconto che affronta il malinconico mondo degli appuntamenti tra divorziati di mezz'età in attesa che gli Stati Uniti intervengano in Iraq (non che questo mondo sia malinconico a prescindere, ma è così che Moore lo descrive: non esattamente divertente, non esattamente triste), Ira nota che «Il Merlot aveva disegnato una linea frastagliata e scabbiosa sulle pellicine del labbro superiore» della sua accompagnatrice. Non dev'essere semplice andare a cena con Lorrie Moore.

Bark non è una raccolta tematica e l'autrice si occupa di politica solo nella misura in cui questa si declina in una serie di ossessioni e scaramanzie private – in un altro racconto la protagonista è costretta a cantare l'inno nazionale americano al cospetto di un'amica morta che non ha fatto in tempo ad andare a trovare in ospedale. Eppure molti di questi racconti parlano di guerra. I personaggi di Bark si incontrano alle riunioni dei pacifisti, piantano cartelli in giardino per incoraggiare le truppe, prendono i redneck per i fondelli e magari poi lo diventano. È una scelta rischiosa: nel 2014, l'Iraq non è né vicino né lontano. Ma Lorrie Moore ha una voce talmente musicale e precisa che le si perdona questa fiducia incrollabile nella capacità di ipnotizzare il pubblico a partire da aneddoti che magari non sono smaglianti, ma in bocca a lei lo diventano. E dobbiamo fidarci di lei: da sempre sospettosa nei confronti del memoir – nella raccolta precedente parla sì del tumore di suo figlio, ma trasfigurandolo del tutto – al momento è una delle poche che può opporre una resistenza credibile a coloro che gettano discredito sulla fiction. Ha dichiarato che non scriverà mai un'autobiografia e che il suo compito è immaginare, esagerare, congetturare e mentire. Con uno stile così potente, sarebbe ingenua a fare il contrario. Come Schiavi di New York di Tama Janowitz, Bark è pieno di humour, di riflessi sociali condizionati e di uomini e di donne che si incastrano ma non si sigillano mai come dovrebbero. «Ho cercato di capire come vivono gli americani in America», ha dichiarato in un'intervista qualche anno fa. Dai risultati, direi che pochi autori di short stories lo stanno facendo bene come lei.

Lydia Davis invece è quella che viene definita un'eccentrica. Con tutta la meraviglia e l'imbarazzo che ne consegue. Resuscitata in Europa dopo aver vinto il Man Booker Prize nel 2013, torna dopo la voluminosa raccolta The Collected Stories of Lydia Davis (il punto di partenza migliore se non si ha familiarità con la scrittrice) pubblicata da Farrar cinque anni fa. Can't and Won't, sempre per Farrar, contiene un po' il meglio e il peggio di questa autrice, nota anche per le sue traduzioni di Proust e Flaubert in inglese. Sono centoventidue storie, gran parti delle quali non più lunghe di una pagina, che spaziano da lettere di protesta a brevi trascrizioni di sogni. Davis è una di quelle scrittrici che può smontare sul serio: è l'incubo degli amanti di una trama o di un senso predestinato, mentre per gli appassionati del linguaggio che non torna e di un certo disadattamento, è la cosa migliore inventata dopo Samuel Beckett. È la maestra della super short story. Segue un esempio: «Samuel Johnson è deluso: che ci siano così pochi alberi in Scozia». Se avete voglia di sbattere la testa al muro, è meglio che non leggiate niente di Davis, anche se dicono tutti che è una gran brava persona. Se invece vi ha strappato una smorfia, allora sappiate che è in grado di fornire un numero sufficiente di bizzarrie da farvi venire una paresi facciale da qui all'eternità.

Quando uno dei suoi alter ego– donne che come lei provengono da un mondo semi-accademico e sono capaci di trasformare la lista della spesa in un capolavoro dell'assurdo – scrive alla Green Giant (una specie di Findus americana) per lamentarsi della tonalità cromatica dei piselli, è inevitabile pensare alle lettere di lamentela scritte da Greenberg nelfilm di Noah Baumbach Lo stravagante mondo di Greenberg: «Caro Starbucks, il suo tentativo di plasmare la cultura del caffè in questo paese è stato per lo più di successo. La parte non inclusa in "per lo più" fa schifo». Quando ho visto quel film, mi sono chiesta chi scrivesse quelle lettere. Leggendo Lydia Davis, ho trovato una risposta. C'è sicuramente del talento, se vogliamo anche una genialità in questa reiterata ironia del disadattato. Ma leggendo Can't and Won't, a volte viene il sospetto che non basti dichiarare che la trama è superflua, per essere interessante. Sono due scrittrici diverse, Moore e Davis, ma sono entrambe capaci di strappare una risata loro malgrado. Che sia subito e di cuore, o soltanto ore dopo e a denti stretti. Ora, la festa è finita. Siete tornati a casa. Cosa vi ricordate: la storia che ha incantato tutti, o la battuta che non ha fatto ridere nessuno?

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