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Questo articolo è stato pubblicato il 02 maggio 2014 alle ore 15:02.

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Nel rock c'è chi diventa grande tutto d'un tratto e chi un passo per volta. Damon Albarn appartiene a questa seconda categoria. Con i Blur ha toccato il tetto del mondo con il genere (il Brit Pop) che probabilmente, in quel determinato periodo (gli anni Novanta), rappresentava meglio di tutti lo spirito del tempo. Con i Gorillaz dev'essersi divertito non poco a sfatare miti e riti della musica popolare contemporanea, contaminando medium (il concetto di band con la potenza iconica del cartoon) e messaggio (trovatela voi, se siete bravi, una definizione definitiva per la musica dei Gorillaz).

Potrebbe campare di rendita e pure dignitosamente: lo dimostra la reunion dei Blur dell'anno scorso. Ma il Nostro non è il tipo che ama starsene tranquillo a sedere sugli allori. Ed ecco a voi «Everyday Robots», il primo (vero) album solista dell'ormai 46enne ex ragazzo di Whitechapel, un'operazione raffinata che collega pop e musica colta, attenzione alla melodia e spregiudicate dissonanze, l'universo mainstream e quello underground. Dodici tracce frutto della collaborazione con il producer Richard Russell, personaggio fondamentale della scena elettronica inglese con la sua XL Records che già aveva incrociato due anni fa la strada di Albarn dietro la consolle del penultimo disco di Bobby Womack, ma anche l'irrequieta polistrumentista Natasha Khan e il grande Brian Eno, da quarant'anni a questa parte padre nobile di innumerevoli sperimentazioni soniche.

I temi trattati spaziano dalle esperienze personali di Damon, sin dalla più giovane età, all'alienazione dell'uomo alle prese con una tecnologia che continua a invaderne gli spazi vitali. Apripista è la title track, sospesa tra drammatici sample di violino e pianoforte, magnifico stratagemma per rappresentare il destino di noi ridotti a «robot di tutti i giorni». Dopo la ballad ossessiva e drammatica «Hostiles», il clima si stempera appena un po' con il giro di basso sincopato di «Lonely Press Play». E allora spunta un raggio di sole che sa di world music: è l'ukulele in primo piano di «Mr Tembo», brano che, con l'esplodere del coro missionario di Leytonstone City, potrebbe essere tranquillamente un outtake della «Graceland» di Paul Simon. Non è comunque il caso di crogiolarsi troppo perché «Parakeet» e «The Selfish Giant» riportano l'album alle proprie nervose coordinate melodiche. Prove di spregiudicato intimismo «You & Me» e «Hollow Ponds», mentre «Seven High» e «Photographs» fanno oscillare il pendolo tra la classica e l'elettronica contemporanea. «The History of a Cheating Herart» è una ballata acustica che sembra essere stata concepita per rimettersi in pace con la propria anima di star tormentata. Chiude il conto l'irriverenza di «Heavy Seas of Love», dimostrazione che Albarn non ha affatto rinnegato la sua vena pop. È solo diventato grande.

Damon Albarn
«Everyday Robots»
Parlophone

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