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Questo articolo è stato pubblicato il 05 maggio 2014 alle ore 12:25.

Ci riferiamo alla parola di Cristo e alla sua predilezione per il linguaggio figurato. La bellezza del suo racconto riesce letteralmente a conquistare l'uditorio, e non assomiglia a quella sterminata serie di prediche rivolte nei secoli all'intera umanità che, talvolta, hanno meritato il giudizio tagliente, ma non sempre immotivato, di Voltaire: «L'eloquenza sacra delle prediche è come la spada di Carlo Magno, lunga e piatta» e Montesquieu aggiungeva che «i predicatori quello che non sanno dare in profondità lo danno in lunghezza». Cristo, invece, si esprime in modo diametralmente opposto.

Infatti, le sue 35 parabole – che allargate ai simboli e alle metafore giungono fino a 72 – coinvolgono i nostri occhi e le nostre orecchie e la mente. Il messaggio viene comunicato attraverso un'esperienza globale così che lo sguardo riesce a percepire ciò che le parole dicono, perché il suo è un discorso che procede dal basso, dalla concretezza della vita quotidiana dei suoi ascoltatori e non da un vago orizzonte intellettuale. Le sue parabole parlano dei semi, dei pesci e della donna che ha perso una moneta, delle case e dei portieri di notte, dei figli difficili, dei giudici, dei mercanti e di tutto quello che accade nell'ordinario dell'esistenza, trasfigurandola e orientandola verso il tema che egli vuole annunciare, quello del Regno di Dio.

Significativa è una scena del Vangelo di Giovanni (7,44-46). Un giorno – siamo ancora agli inizi della predicazione di Cristo – i capi dei sacerdoti danno l'ordine di arrestare Gesù. Le guardie vanno per condurlo di fronte ai sommi sacerdoti, ma tornano a mani vuote. Viene loro domandato come mai non lo avessero catturato. La risposta dei soldati, nel candore disarmante delle persone semplici, rivela la forza creatrice ed estetica della parola di Cristo. «Nessuno, dicono, ha parlato come parla questo uomo!». Idealmente immaginiamo le loro mani cadute lungo i fianchi, incapaci di stringere le catene attorno ai polsi e ai piedi di Gesù: la parola autentica non può essere incatenata.

Non per nulla quando il Faust di Goethe dovrà tradurre in tedesco quell'incipit straordinario, sopra citato, del prologo giovanneo, al Lógos-Parola non assegnerà solo lo scontato Wort, ma ne svilupperà in pienezza l'autentica semantica con Sinn, «significato», Kraft, «potenza», Tat, «atto». Nell'ebraico biblico dabar, «parola», significa anche «atto, fatto, evento», in uno slittamento dinamico che Emily Dickinson esprimerà in modo folgorante: «Una parola è morta / quando viene detta: / dicono alcuni. / Io dico / che soltanto allora comincia a vivere». Sì, «la parola, sappiatelo, è un essere vivente», sosteneva Victor Hugo nelle sue Contemplazioni. Ed è per questo che il libro, se custodisce parole viventi, è anch'esso una sorgente di vita. Lo ricordava un grande pensatore come Romano Guardini nel suo Elogio del libro, rievocando una battaglia dall'esito disperato nell'ultima Guerra mondiale: «Il cappellano militare, sentendo che non aveva nulla da dire di accettabile in quell'ora, tolse di tasca il proprio Nuovo Testamento, ne strappò le pagine e ne diede una ad ogni soldato».

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