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Questo articolo è stato pubblicato il 05 maggio 2014 alle ore 12:25.

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Confesso, con Neruda, che ho vissuto. Ma mi corre l'obbligo di confessare anche che, alla mia veneranda età, molte delle cose per le quali ho vissuto mi appaiono come fatte da una persona che aveva il mio nome, le mie fattezze, ma che sostanzialmente non ero io. Così come non mi riconosco in un agire dominato solo dal senso, non mi ritrovo neppure in un comportamento dettato solo dalla ragione. Gran parte della mia esistenza è trascorsa in una sorta di sbilanciamento tra una parte e l'altra, sono stato come un equilibrista su un filo sospeso tra due grattacieli sotto un vento continuamente mutevole. Quanta pazienza e quanta volontà mi ci sono volute per tenere sotto controllo le mie contraddizioni!

Alla luce violetta della prima alba dell'inverno 1951, imbocco a piedi via Condotti a Roma. Tornavo a casa risparmiando sul biglietto del tram per potermi pagare un cappuccino, sono gli ultimi soldi che ho. Nella via, oltre me, c'è un uomo che viene nella mia direzione. Quando c'incrociamo, l'uomo mi dice: «Mi scusi». Mi fermo. «Desidera?» Lo guardo. È un cinquantenne elegantissimo, il suo cappotto varrà una fortuna. «Ho perso tutto al gioco» mi dice. «Mi regala i soldi per il tram?» «Ho solo quelli» faccio imbarazzato. «Mi perdoni» fa l'uomo e s'avvia. Lo rincorro coi soldi in mano, glieli porgo: «Ecco. Se li prenda». «A queste condizioni non posso assolutamente accettare» dice l'uomo. Mi fa un inchino e se ne va.

Ogni tanto mi capita di seguire una trasmissione televisiva basata su domande di vario genere rivolte ai concorrenti. Che sono di ogni età. Spesso rimango sconvolto. Alla domanda: «In che anno il fascismo mise la tassa sul celibato?», una trentenne risponde senza esitare: «Nel 1956». Alla domanda su chi fosse l'inventore del parafulmine, la risposta di un sessantenne baldanzoso è: «Rita Levi-Montalcini». E ancora: «Come si chiamava il servo di don Chisciotte?». Risposta lapidaria: «Rigoletto». E potrei continuare. Invece è assai difficile che i concorrenti sbaglino le risposte sul festival di Sanremo, sui cantanti, sulle squadre di calcio, sui campionati sportivi. Tutta colpa della scuola? Ma fatemi il piacere!

A proposito di poeti. Raccontano che Dino Campana girasse per Firenze con una sacca colma di copie dei suoi Canti orfici per venderle ai passanti. Pare che pochi si rifiutassero di comprare, i più lo facevano di certo intimoriti dall'aspetto inquietante del poeta (gran barba e capelli rossi, pantaloni a fiorami, nodoso bastone). Però Campana, prima di consegnare all'acquirente la copia già pagata, lo scrutava ben bene e poi decideva se strappare le pagine con certe poesie che, secondo lui, il futuro lettore non avrebbe capito. A un tale, che non osò ribellarsi, vendette la sola copertina. Conosco certi docenti, certi cattedratici che discettano di poesia, ai quali Campana non avrebbe venduto neppure quella.

Nei primi anni Cinquanta il mio amico Chicco Pavolini mi fece leggere una commedia, Orgoglio e turbamento, scritta e pubblicata nel '30 da un pazzo autentico e geniale, Serbati Angelo (così in copertina). La commedia era preceduta da quindici dediche, la prima «Al Popolo Italiano». Iniziava così: «O Popolo inequivocabile!». E mai definizione del nostro popolo m'è parsa tanto appropriata. In coda all'elenco dei personaggi, ognuno designato con nome, cognome, paternità, maternità, data e luogo di nascita, professione e indirizzo, c'erano due avvertenze. La prima: «Oltre ai sunnominati ci sono anche 4 personaggi immaginari che il lettore disporrà dove vuole».

La seconda: «Ogni personaggio, morendo, si capovolge».
Scomparsi per suicidio Esenin e Majakovskij, durante il periodo staliniano è scomparsa nell'Urss anche la grande poesia d'amore. O meglio, la poesia d'amore, soprattutto firmata da donne, è stata tenuta in spregio e in sordina. La cosa ha una sua logica. Infatti l'amore tra un uomo e una donna rimane sempre un fatto strettamente privato. Collettivo può essere l'amore per il Capo, per il popolo, per gli eroi del lavoro… In compenso, fuori dai confini dell'Urss, i più grandi poeti dichiaratamente comunisti sono stati anche e soprattutto insuperabili poeti d'amore. Per esempio la triade Neruda-Hikmet-Éluard. La domanda allora è questa: lo sarebbero diventati se fossero vissuti nell'Unione sovietica?

«Quando venivo a Roma, prendevo presto posto in uno scompartimento vuoto, occupavo gli altri sedili con dei libri e mi assorbivo nella lettura dopo aver chiuso la porta scorrevole e le tendine. Così ero sicuro di viaggiare indisturbato. Ma un giorno la porta si aprì ed entrò il tipico gagà dell'epoca, cappello a caciotta e scarpe a carro armato. Levò il libro dal posto davanti al mio, si sedette, si tolse il cappello e mi porse la mano, recitando nome e cognome con la erre moscia. Allora io, per annientarlo, gli presi la mano e sillabai: «Piacere. Benedetto Croce». Quello mormorò tra sé e sé «Croce… Croce…» e poi mi chiese: «Siete per caso parente di Ersilia Croce?». Sentita raccontare da Croce nel maggio 1945.

Decenne, mi dilettava camminare nella campagna solitaria di mio nonno nelle ore più calde della giornata, quando ogni essere vivente cadeva in una specie di torpore. Allora potevo prendere innocui biscioni con le mani, rabbrividivo sentendo la loro pelle fredda sulla mia mentre s'avvolgevano al mio braccio, oppure riuscivo a battere in velocità un coniglio selvatico… Ho assistito a cruenti scontri tra orde di formiche rivali, ho visto due cavallette liberare una loro compagna prigioniera… Mi è capitato anche un miracolo che per anni ho tenuto per me. Un giorno, mentre facevo una gara d'immobilità con una lucertola, un passero si posò sulla mia spalla, si avvicinò zampettando alla mia guancia, me la beccò leggero, volò via.

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