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Questo articolo è stato pubblicato il 21 maggio 2014 alle ore 20:15.

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Non fosse per le donne, ci ritroveremmo di fronte a una delle edizioni più sottotono del Festival di Cannes. La sorprendente Melanie Laurent alla regia alla Semaine de la critique ha forse dato il miglior film alla rassegna, con Respire. Insieme a Naomi Kawase - ambizioso, poetico e potente il suo Still the Water, tra i favoriti per la Palma d'oro - e ai fratelli Dardenne, che grazie alla loro passione sociale, al loro rigore narrativo e a una Marion Cotillard al suo meglio ci hanno regalato, con Deux Jours, une nuit, uno dei loro più bei (capo)lavori.

Ecco perché una giornata come quella di oggi diventa più difficile da digerire.
Arriva Hazanavicius, con quell'Oscar a The Artist a pesare sul suo curriculum, e con The Search mette d'accordo tutti. O quasi, vista la delusione evidente negli occhi dei critici alla fine della proiezione della peggiore opera della sua già sopravvalutata cinematografia. Come sempre utilizza la compagna di vita, la tanto bella quanto poco credibile Berenice Bejo, per entrare a gamba tesa in un argomento più grande di lui. Il conflitto russo-ceceno, infatti, è una di quelle matasse che nessuno è mai riuscito a sbrogliare, né a livello politico, né sul piano dell'analisi. Lui lo affronta nella maniera peggiore, con l'arma della semplificazione e del buonismo, con una protagonista che non ha sfaccettature - se non quelle dell'eroina senza se e senza ma - e una storia così esile da risultare sconcertante, persino in quel finale prevedibilissimo.

Non si trova traccia di profondità in The Search, di umanità, anche per sciatterie insopportabili: l'inviata della commissione europea a Grozny, la Bejo appunto, troppo concentrata su se stessa, si ritrova a badare a un orfano locale. E che pensa di fare? Gli parla in francese, la sua lingua. Per poi lamentarsi del mutismo del piccolo. Materiale da parodia, se non fosse che il lungometraggio si prende terribilmente sul serio. La regia è poi più piatta e fredda della sceneggiatura, in una tesi totalmente antirussa che può essere lodevole ma ben poco utile per la crescita del film.

Non va meglio con un altro transalpino, il maestro per eccellenza. Parliamo, ovviamente, di Jean-Luc Godard. Uno che ormai può giustamente permettersi tutto, dopo aver rivoluzionato la Settima Arte, ma che forse dovrebbe avere lo stesso pudore che ha nel presentarsi in pubblico, con le sue opere. Non sembra minimamente coerente con le sue battaglie di un tempo questo ostinato rimanere attaccato al potere, a posizioni di privilegio come la presenza in concorso a Cannes, che ovviamente raccoglie solo per il suo nome e la sua storia. Può persino interessare, nel suo Adieu au langage, quella curiosità bambina verso il 3D e verso colori e sfumature più figlie dei filtri di un cellulare che del cinema. Ma meriterebbero altra collocazione, anche più rispettosa di quello sperimentalismo estremo che pratica e che ha un acuto in una dissolvenza tridimensionale arditissima da vedere con un occhio aperto e uno chiuso, se vuoi salvare il tuo nervo ottico.

La reazione al virtuosismo è stata da stadio, nella sala Lumiere. A noi francamente il suo stile sembra stanco, la sua irriverenza visiva e nel racconto sembra figlia di una perversione senile. E quando arrivano due peti e una defecazione accompagnata da elegia orale della stessa, si sente la mancanza del cinepanettone. Da sottolineare, però, che in fondo pure Cronenberg e Rohrwacher si sono abbandonati a un momento escatologico, quindi non vorremmo che questa delle funzioni corporali non più fuori campo sia una pericolosa moda del cinema d'autore di cui il trio è solo un'avanguardia.

Chiudiamo con la terza delusione di giornata: Lost River, al Certain Regard. Un po' Lynch e un po' Refn, Ryan Gosling racconta le vite di una città fantasma scimmiottando altri e in alcuni caso copiandoli. Il consiglio spassionato al divo è di dedicarsi solo alla recitazione. Ne guadagneremmo tutti, ma soprattutto lui.

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