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Questo articolo è stato pubblicato il 24 maggio 2014 alle ore 09:34.

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Prendendo in prestito un aforisma di Archiloco, Isaiah Berlin scrisse che gli scrittori si dividono in due categorie: quelli riccio e quelli volpe. In sostanza, quelli che cullano una sola idea fissa da rimuginare in ogni libro e quelli curiosi che invece cambiano di continuo. La sintesi era che la volpe sa tante cose, ma il riccio ne sa una grande. In fondo non era un giudizio qualitativo e di sicuro non esaurisce la gamma offerta dalle lettere, però aiuta a mettere a fuoco un approccio alla scrittura e al mondo. La ripartizione torna in mente davanti al lavoro di uno scrittore come Teju Cole. Di origine africana, Cole è nato negli Stati Uniti e cresciuto in Nigeria. Ha studiato psicologia e ha esordito nella narrativa con un libro intitolato Città aperta, pubblicato da Einaudi nella bella traduzione di Gioia Guerzoni, dove raccontava la vita riflessiva di Julius, emigrato africano di stanza negli Stati Uniti, padre nigeriano e madre tedesca, che studia psichiatria e bighellona per la New York post-11 settembre, ponderando identità, guerra al terrorismo, infanzia e Storia. In debito con le divagazioni di Sebald, il romanzo era un tentativo di flânerie metropolitana e seguiva (o meglio: si perdeva dietro) un senso di sradicamento, sbandando in tante piccole meditazioni digressive. Come il funambolo che nel 1974 attraversò le Torri, Città aperta oscillava tra romanzo e saggio, tra elucubrazione filosofica e istantanea poetica.

Ora è uscito negli Stati Uniti il suo nuovo libro (Every Day Is for the Thief, Random House) e già qui le cose si ingarbugliano, perché in realtà questo era il suo esordio, uscito per la casa editrice nigeriana Cassava Republic nel 2007 e ristampato grazie al successo del secondo, quasi a chiudere un cerchio (che pure resta spezzato). Inoltre è spacciato per fiction, sebbene ricordi tanto un diario di viaggio, sorta di travelogue, arricchito dalle fotografie scattate proprio dall'autore in Nigeria. Anche qui il protagonista studia psichiatria e se n'è andato dall'Africa, solo che quando torna a Lagos, in patria dopo anni di assenza, l'impressione di sradicamento è lo stesso. Il primo senso di malessere lo prende quando deve pagare una bustarella per avere il passaporto: è il vero visto d'ingresso in un Paese dove regna la corruzione. Nel corso del viaggio incontra una violenza endemica, trovando anche in sé un'oscura predisposizione al conflitto. Entra in un Internet Point e gli appaiono come un'epifania quelli che lì vengono chiamati "Yahoo Boys", i ragazzi che provano a truffare il resto del mondo con assurde frodi dall'Africa. S'indigna quando in un museo trova la didascalia: «All'inizio del diciannovesimo secolo, gli sforzi di diversi abolizionisti gradualmente posero fine alla riprovevole pratica dello schiavismo». Riprovevole: tutto qui.

Ma, soprattutto, sente l'oceano di vicende che attendono di essere raccontate: «Devo solo pungolare con delicatezza e la gente si apre». Ecco che il suo Paese distante e irriconoscibile – forse sineddoche del mondo – gli appare all'improvviso come una specie di Sherazade, costretto a inventare storie per sopravvivere. Nel momento in cui patisce lo stesso senso di smarrimento di Julius in Città aperta, al protagonista non resta che aggrapparsi al filo esile della narrazione per ritrovare il senso della realtà. Il passeggiatore solitario che esplorava Manhattan con lo sguardo alieno di un espatriato in cerca di se stesso torna dov'è nato per scoprire di non appartenere neanche più alla patria d'origine, di non essere né di là né di qua. Da tempo Teju Cole esplora questa flânerie tra le narrazioni anche nella terra di nessuno che è la rete, in particolare su Twitter. Dapprima c'è stata la serie sui droni: racconti di 140 caratteri che "piegavano" i classici per denunciarne l'uso americano in Pakistan. Poi, con la complicità di altri scrittori, l'orchestrazione nella propria timeline – che di norma si presuppone "reale" – di un breve racconto a colpi di retweet: la storia di un uomo che ha un malore per la strada. Quindi ha pubblicato su un account creato ad hoc un saggio sull'immigrazione dal titolo A Piece of the Wall, dove anche i dialoghi prendevano vita con il retweet da altri utenti. Interrogato a proposito, ha risposto: «Se vi dicono che un saggio di cinquemila parole sulla New York Review of Books è l'unica maniera di essere seri, vi stanno mentendo».

Sempre al confine tra realtà e finzione, tra saggio e narrazione, Cole esplora le possibili varianti offerte dalla scrittura, anche davanti al nuovo tipo di lettura partorito dai social network. Rubano l'attenzione, sono una perdita di tempo, esaltano il narcisismo: può essere, ma perché non provare a usarli non solo per linkare articoli o fare battute e/o promozione? Sintetizzando le due tipologie individuate da Berlin, Teju Cole – volpe e riccio insieme – scandaglia la stessa idea ogni volta in modo diverso: l'impatto delle storie sulla realtà, della realtà sulle storie.

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