Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 03 giugno 2014 alle ore 08:54.

My24
Ian McEwan. (Ap)Ian McEwan. (Ap)

«È liberatorio descrivere il romanzo che non pubblicherai mai». Frase migliore non potrebbe esserci per presentare la più recente notizia riguardante Ian McEwan: il suo archivio di manoscritti (e non solo) è stato appena acquistato dall'Harry Ransom Center, autentica mecca della filologia con sede nel Texas che ha già al proprio attivo le carte private di classici moderni come Don DeLillo, Norman Mailer e David Foster Wallace.
«Questa acquisizione è un caso raro», ha dichiarato il direttore del centro Stephen Enniss, «perché offre la possibilità di collaborare sull'opera di uno scrittore vivente».

E se l'istituzione texana ha scelto di pagare 2 milioni di dollari per assicurarsi il backstage di chi immaginò L'amore fatale e Lettera a Berlino, si può ben supporre che il gioco sia valso la candela. Presto gli eruditi di tutto il mondo potranno infatti setacciare gli incartamenti privati dell'autore e ricostruirne così il processo creativo; potranno consultare numerose rarità come alcuni racconti inediti composti tra gli anni 60 e 70, i taccuini e i dattiloscritti che documentano le fasi intermedie in acclamati lavori tra cui Chesil Beach e Amsterdam, oppure girovagare tra i meandri di un invidiabile epistolario che vanta destinatari come Philip Roth e Salman Rushdie, senza peraltro dimenticare Zadie Smith e Christopher Hitchens.

Ma cos'è la scrittura per Ian McEwan? Secondo lui è un processo di costruzione dal basso che non si sviluppa seguendo temi predeterminati. Forse è per questo che ama citare una frase di Vladimir Nabokov: «Accarezza i dettagli». Del resto la miccia da cui sono scaturiti alcuni suoi libri era un elemento casuale e lo stesso vale per il suo modus scribendi, rigorosamente non-lineare. Sul tavolo da lavoro di McEwan non ci sono né schemi né scalette. «Stendo un paragrafo di apertura e so che non sarò mai costretto a completarlo: la consapevolezza di non doverlo continuare mi dà un senso di liberazione e quindi mi autoconvinco a scrivere un altro paio di pagine; dopodiché inizio a pensare che forse c'è qualcosa di buono, così torno indietro e... in men che non si dica mi ritrovo ad aggiungere ancora delle altre parti».

Questo particolare procedimento andrebbe chiosato con un passo di Espiazione, dove si legge che una storia è «una forma di telepatia», meglio ancora, «un procedimento magico». Gli amanti dei trivia potrebbero invece condensarlo nella seguente ricetta: dalle nove e mezza fino all'ora di pranzo per scrivere tre-quattro cartelle e poi un bicchier di vino dopo cena... ma i filologi di tutto il mondo griderebbero alla semplificazione. È infatti noto che l'autore inglese, soprannominato «Macabre» per l'oscurità dei suoi temi, preferisce comporre una prima stesura a mano, poi la ribatte a macchina e quindi la trasferisce su computer. Da là avvia un'ulteriore fase di revisione multipla che ritorna su direttrici rigorosamente manoscritte. Ma prima di tutto questo, McEwan parte da un enorme quadernone verde ad anelli in formato A4. L'ha scelto grande apposta («così non me lo porto troppo in giro») e ci scarabocchia idee che di tanto in tanto accendono la scintilla destinata a diventare un incipit.

Attenzione però, per essere degna di arrivare in libreria, quella fiammella deve durare almeno per cinquanta pagine manoscritte e soprattutto mantenere vivo l'interesse del medesimo McEwan.
«Talvolta il processo che porta al libro finito», ha detto commentando proprio la cessione del suo archivio, «può seguire svolte impreviste».
Ad esempio è capitato che un suo romanzo nascesse da una frase buttata giù distrattamente, come Espiazione, titolo tra i più noti di McEwan che però in prima bozza doveva essere «una storia di fantascienza ambientata tra due-tre secoli». Col senno di poi, dice di sorprendersi sempre quando gli capita di osservare tutti gli appunti sparsi da cui è sbocciato il lavoro finale: «È come l'espressione coniata da quello scrittore e critico inglese, Victor Sawdon Pritchett. Lui parlava di "caparbio torpore"».

Ecco perché McEwan ha sempre dichiarato di apprezzare l'esitazione e le pause in fase creativa: non tanto perché tradiscano indecisione, semmai in quanto «permettono alle cose di abbellirsi».
Ci si aspetterebbe che un autore dal metodo così minuzioso privilegi il lato tecnico, quasi accademico, della scrittura. Macché. Secondo lui, che agli esordi veniva comunque editato dal leggendario Ted Solotaroff, il contesto ideale per un romanziere non è né l'isolamento di un campus universitario né tantomeno lo sterile esercizio di stile: meglio la gavetta nei lavori giornalistici e molto meglio il brusio delle città che casomai spingono gli scrittori a incontrarsi e parlare tra loro. E non certo per dissertare di futili arzigogoli retorici: «Quando vedo i miei amici scrittori e chiacchieriamo di letteratura», confessa McEwan, «non parliamo di tecnica, parliamo più delle cose che ci appassionano». Speriamo che abbia tanti amici italiani.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi