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Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2014 alle ore 08:53.
L'ultima modifica è del 12 giugno 2014 alle ore 10:25.

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Dell'Italia si dice che sia un Paese con lo sguardo rivolto all'indietro, incapace d'immaginare il domani, schiacciato com'è da oltre duemila anni di glorie e di miserie. E non è del tutto falso, a giudicare anche solo dal numero di sbandieramenti e cortei che investono le nostre città d'arte fin dal primo sole di primavera. Eppure, è vero anche il contrario. Siamo un Paese senza memoria, che scruta invidioso le Silicon Valley del mondo, a volte senza capire che l'unica via d'uscita, per noi, è far leva sulla storia, anziché sognare improbabili tabule rase. Due esempi opposti arrivano dalla penisola iberica. Dove Spagna e Portogallo stanno affrontando la crisi non solo a colpi di tagli e riforme, ma soprattutto con la capacità di reinterpretare la storia per gettare le basi del nuovo.

Primo caso: la Spagna. Lì qualcuno si è convinto che il declino non sia iniziato nel 2008, bensì nel 1492, anno della scoperta dell'America. Risale a quell'epoca il decreto dell'Alhambra che ordinò agli ebrei spagnoli di convertirsi al cristianesimo o di lasciare il Paese, abbandonando le loro occupazioni e tutti gli averi. Nel corso dei decenni successivi, a furia di persecuzioni e di conversioni forzate, i regnanti e l'Inquisizione riuscirono ad annientare una collettività che contava trecentomila persone e che aveva costituito per secoli l'ossatura della business community iberica, come si può vedere ancor oggi passeggiando tra gli splendori della Juderia di Cordova.

Così facendo, gli spagnoli si diedero la classica zappa sui piedi, mentre la diaspora sefardita avrebbe, nei secoli successivi, regalato al mondo alcune tra le vette della scienza, del pensiero e degli affari. A oltre cinque secoli di distanza, il governo Rajoy ha deciso di rimediare, varando una legge che concede la cittadinanza spagnola a tutti gli ebrei che siano in grado di dimostrare un'origine sefardita e "un legame speciale con la Spagna". In teoria, sarebbero milioni di persone (qualcuno ha calcolato che basterebbero i sefarditi dell'Upper West Side di Manhattan a raddoppiare l'attuale comunità ebraica spagnola…). Ma, al di là della risposta – ancora tutta da verificare – la legge spagnola è una mossa geniale, per il modo in cui unisce l'ideale al profitto e il passato al futuro. Da un lato, ripara un'ingiustizia storica e fa onore al governo che l'ha proposta. Dall'altra, punta ad attirare professionalità e capitali indispensabili in una fase di crisi come quella attuale. In pratica, è una maniera brillante di fare leva sul passato per garantirsi un vantaggio competitivo per il futuro.

Secondo caso: il Portogallo. All'inizio di aprile, 44mila nuove cartine geografiche sono state appese ai muri di tutte le classi delle scuole pubbliche. Sono le nuove cartine ufficiali del paese, ma hanno qualcosa di strano. Il territorio portoghese, infatti, è schiacciato sull'estrema destra del quadro, mentre la maggior parte dello spazio è occupata da una massa azzurra. L'idea è di far entrare nella testa di tutti gli studenti che Portugal É Mar, il Portogallo è oceano. Quattro milioni di chilometri quadrati di acque territoriali a fronte di soli 92mila chilometri quadrati di terra, poco più del 3 per cento, sulla base di una proposta presentata dal governo portoghese in sede Onu. Ancora un modo di ricollegarsi ai fasti del passato per proiettarsi nel futuro: le glorie Enrico il Navigatore e Vasco da Gama da una parte, le potenzialità infinite dei traffici e dei giacimenti sottomarini dall'altra.
Confrontati con la crisi, in pratica, i nostri cugini della penisola iberica non stanno mettendo in campo solo gli strumenti dolorosi e necessari delle riforme del welfare, della pubblica amministrazione, del settore finanziario. Stanno anche sfoderando orgoglio e creatività per reinventare un modello economico dotato di profonde radici storiche e culturali. Una filosofia alla quale varrebbe la pena di ispirarsi anche dalle nostre parti.

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