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Questo articolo è stato pubblicato il 13 giugno 2014 alle ore 12:26.

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Aggiustare lo Stato è l’obiettivo della “quarta rivoluzione” che dà il titolo all’ultimo saggio di John Micklethwait e Adrian Wooldridge, premiata coppia di giornalisti dell’Economist – il primo è l’attuale direttore, il secondo è il management editor ed è stato a lungo a capo della redazione di Washington – diventata celebre nel 2004 con il bellissimo saggio sul conservatorismo americano The Right Nation. La quarta rivoluzione racconta com’è cambiato il ruolo dello Stato nella società occidentale dal XVII secolo in poi, identifica tre rivoluzioni e mezzo già compiute e pone le basi per la quarta, con un occhio – invero benevolo – a quel che avviene a Oriente, in particolare a Singapore e in Cina.

Gli autori fanno due premesse personali, come personali sono anche alcuni dettagli disseminati nel libro come camei (a San Francisco in sauna con Anthony Fischer e Milton Friedman che fanno domande su Margaret Thatcher, per dire): siamo cresciuti all’Economist, scrivono Micklethwait e Wooldridge, e per questo tendiamo a preferire soluzioni in cui lo Stato è snello e non invadente; siamo cresciuti nel Regno Unito e scusateci se le rivoluzioni che abbiamo identificato nascono da uomini e idee britannici, visto che «nessun altro Paese fornisce un esempio migliore delle giravolte dei governi occidentali degli ultimi quattrocento anni».

Così inizia il viaggio storico attraverso le tre rivoluzioni e mezzo governate dall’«anatomista» Thomas Hobbes, dal filosofo John Stuart Mill, dalla «madrina del welfare state» Beatrice Webb e dall’economista Milton Friedman (quest’ultima è l’unica rivoluzione incompiuta). Nel maggio del 1651 Hobbes pubblicò il Leviatano, nel quale «suddivise la società nelle sue componenti come un meccanico smonta un’auto per vedere come funziona», scrivono Micklethwait e Wooldridge. L’idea centrale del saggio è che il primo compito dello Stato è far rispettare le leggi e mantenere il controllo della popolazione: l’unico modo per evitare guerre civili permanenti, scrive Hobbes, è rinunciare al diritto naturale dell’uomo di fare come gli pare per costruire una sovranità artificiale: «Uno Stato che eserciti il suo potere, la cui legittimità stia nell’efficacia, le cui opinioni siano la verità e i cui ordini siano la giustizia – un Grande Fratello vestito da filosofo», riassumono gli autori. Con Hobbes, per la prima volta, emerge il principio del contratto sociale: individui razionali che cercano di creare un equilibrio tra il loro desiderio di libertà e la paura della distruzione.

I padri fondatori dell’America accolsero l’idea di Hobbes secondo cui gli uomini non sono angeli, ma arrivarono a una conclusione molto lontana dall’autoritarismo: la sovranità statunitense si divise in gruppi differenti che si controllavano l’un l’altro (check-and-balance). Proprio il Leviatano aprì le porte al suo successore ben più liberale, John Stuart Mill, nato 127 anni dopo la morte di Hobbes e «vivido esempio del progresso europeo», prodotto di un gruppo di intellettuali vittoriani che studiarono alternative all’ancien régime. Il saggio On Liberty del 1859 ancora oggi è la bibbia dei sostenitori dello small government. Con la teoria politica di Mill entrano nel dibattito temi come la meritocrazia, l’efficacia, l’incentivo, o come scrisse uno dei premier più importanti del Regno Unito, William Gladstone, il fatto che «lo Stato non dovrebbe fare nulla che possa essere fatto meglio da uno sforzo volontario». È la nascita dello Stato liberale assieme alla lotta capitalista contro la “Old Corruption”.

Lo stesso Mill ebbe poi alcuni ripensamenti sul ruolo della società – dello Stato – nel garantire un minimo di benessere a tutti, e ancora una volta dopo l’esperienza liberale s’impone il suo contrario, con Beatrice Webb, il marito Sidney, il welfare state, la società fabiana, il partito laburista. È l’inizio del Novecento, e all’improvviso due elementi nuovi diventano normali: la tassazione per tutti per dare servizi ai più sfortunati e l’idea che i poveri siano vittime. È la rivoluzione che ha più successo, viene replicata ovunque, diventa pensiero comune il fatto che lo Stato sappia meglio dei cittadini che cosa sia meglio per loro in termini di istruzione, sanità, vecchiaia e molto altro.

Poi arriva l’economista liberale Milton Friedman che dà forma alla “mezza rivoluzione” che caratterizza gli anni Ottanta del secolo scorso, l’ascesa al potere di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, con le loro riforme liberali e il dibattito sulla necessità di restringere il potere dello Stato diventato invadente e costosissimo. Secondo Micklethwait e Wooldridge, Friedman vinse il dibattito delle idee ma non conquistò la vita reale, ed è per questo che ora si è resa necessaria una quarta rivoluzione. I contorni di quest’ultima fase sono tratteggiati dagli autori con una serie di esempi che vanno dal disastro del big spending in California fino alla fascinazione per Singapore, passando per i guai di General Motors, l’inventiva manageriale di Google e le scuole per l’élite cinesi a caccia di un riscatto internazionale.

Gli esempi, resi vivi dalle voci dei protagonisti, servono a non dare un colore politico ai fallimenti registrati negli ultimi decenni – sinistra e destra sono egualmente responsabili – e per arrivare a una definizione teorica della quarta rivoluzione. Lo Stato è gigantesco ma non è diventato più efficace, anzi, ora riesce a svolgere male anche le sue funzioni base: i cittadini non si fidano, eppure chiedono allo Stato sempre di più – Micklethwait e Wooldridge lo definiscono il paradosso della democrazia. John Adams, secondo presidente americano, scriveva nel 1814 che «la democrazia non dura a lungo. Presto si butta via, si logora e uccide se stessa. Non c’è mai stata una democrazia che non abbia commesso un suicidio». È la realizzazione delle preoccupazioni che Platone delineava nella Repubblica: i popoli si muovono sulla base delle emozioni e non della razionalità, perseguendo interessi privati e immediati invece che una saggezza a lungo termine. La democrazia è esausta: per ravvivarla, i diritti individuali devono tornare a essere centrali e lo Stato deve tornare a essere limitato. Democrazia e capitalismo sono “gemelli”: la libertà politica può prosperare solo se c’è libertà economica. Questa è la chiave della quarta rivoluzione: lo Stato torna a essere sostenibile, e può infine mantenere le promesse fatte ai cittadini.

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