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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2014 alle ore 09:41.

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«C'è un'industria, a Hong Kong. Ci sono tecnici, uno star system, un'autentica passione cinefila e un festival di cinema aperto e vivace […] Una lettura superficiale potrebbe far pensare a una cultura cinematografica piegata su se stessa, che si è ristretta e comunica sempre meno con il cinema internazionale […] ma credo sia più pertinente analizzare ciò che persiste, ciò che resiste malgrado tutto, ciò che fa di Hong Kong, oggi come ieri, la sfera di cristallo in cui leggere il futuro del cinema»: così Olivier Assayas, grande regista francese in concorso all'ultimo Festival di Cannes con «Clouds of Sils Maria», apre il maestoso libro «Il nuovo cinema di Hong Kong», di cui ha realizzato la prefazione.

Scritto da Stefano Locati ed Emanuele Sacchi, tra i massimi esperti italiani di cinema asiatico, e pubblicato dalla collana Bietti Heterotopia, il ricco volume offre un importante sguardo, storico e filologico, sulla produzione hongkonghese del nuovo millennio, a partire da una data cardine, il 1997, anno in cui l'ex colonia britannica è tornata sotto il controllo della Cina.

Dopo i fasti degli anni '80 e '90 (basti pensare ad autori come Patrick Tam, John Woo, Wong Kar Wai e Tsui Hark), come sono i cambiati negli ultimi tempi i modi di produzione, i generi e gli stili di una delle cinematografie più fresche e innovative della fine del secolo scorso? La risposta provano a darla gli autori, analizzandone le variazioni cinematografiche, sociali e politiche: i rapporti con la Cina e la ripresa (attualizzata) di antichi filoni, dal nuovo corso della commedia, alla rinascita del wuxia fino alla riscoperta del mélo.

Al termine di un' approfondita sezione di analisi, il volume propone un elenco di 250 schede che rappresentano quanto di più significativo, secondo i due autori, è stato prodotto a Hong Kong dal 1998 a oggi: il libro si trasforma così anche in un vero e proprio dizionario, preciso e accurato, dove le informazioni si mescolano a un commento sulle tematiche e il valore di ognuno dei titoli prescelti.

In seguito, spazio alle interviste ai registi (tra i tanti, anche i maestri Johnnie To e Ann Hui) e, in conclusione (prima di una filmografia ragionata e divisa per autore), un interessante capitolo in cui si chiede a critici e studiosi di scegliere un film di Hong Kong (pre-1997) che li abbia "convertiti" ad amare una cinematografia tanto ricca e variegata, a cui questo volume fa un grande, sentito e doveroso omaggio.

La stessa collana, diretta da Claudio Bartolini, Ilaria Floreano e Giulio Sangiorgio, ha proposto in libreria un altro volume di grande fascino: «La recita della storia – Il caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio», firmato da Anton Giulio Mancino.
Se in «Buongiorno, notte» (2003), Bellocchio aveva raccontato il rapimento e la detenzione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, Mancino rilegge (quasi per intero) la filmografia del regista piacentino in relazione al caso che ha sconvolto l'Italia nel 1978.
La prospettiva è ambiziosa e irta di rischi, ma l'autore riesce a sostenere la sua interpretazione con notevole spessore e grande documentazione, costruendo la sua analisi con riferimenti e collegamenti ottimamente argomentati.

Indubbiamente, è uno dei testi sulla settima arte più originali e suggestivi degli ultimi anni, in grado di sviluppare nuove riflessioni su uno dei registi più importanti del nostro cinema.
La prefazione è a cura del noto politologo Giorgio Galli.

Infine, da segnalare tra le nuove uscite della collana Bietti Heterotopia anche l'imperdibile «Wes Anderson. Genitori, figli e altri animali», un volume monografico sul regista americano (autore de «I Tenenbaum» e del recente «Grand Budapest Hotel») firmato da Ilaria Feole, che può vantare la prefazione di un maestro del cinema americano come Peter Bogdanovich.

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