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Questo articolo è stato pubblicato il 14 giugno 2014 alle ore 10:13.

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Chissà se per la narrativa di guerra vale la stessa regola dei gialli o dei fumetti: se dici che quel libro è così bello che non sembra un giallo o un fumetto, i cultori del genere insorgono sentendosi sminuiti. Chissà se ogni volta che consiglierò a qualcuno Redeployment di Phil Klay (Penguin, 2014) mi toccherà precisare che è stato scritto da un giovane veterano dell'Iraq oppure potrò limitarmi a definirlo l'esordio straordinario di un grande scrittore.

Attraverso dodici storie – per la frammentaria miseria dell'orrore non c'è forma letteraria più congrua del racconto breve – Klay ricostruisce un Iraq occupato e invadente, grottesco e quotidiano.
Per dodici volte l'io narrante è convincente fino in fondo, così come sono credibili tutti i personaggi, dal cappellano all'artigliere, in un susseguirsi di registri diversi, diretti da uno scrittore che ha scelto di andare alla guerra e non da un soldato che una volta a casa ha sentito il bisogno di curare con la scrittura il suo disturbo post-traumatico.

Nel ritiro, nel ripiego sommesso del ritorno (redeployment, in gergo bellico) non c'è nessun eroismo ma ci siamo semplicemente noi: la vita messa alla berlina in questo libro è la nostra, con i suoi baratri e il suo non-senso, pur se dal punto di vista di un'esperienza totale. Non c'è l'ambizione di raccontare la guerra con la lettera maiuscola, si narrano invece piccoli episodi sospesi, allucinati, in cui più che lo scontro titanico fra bene e male viene fuori il loro mediocre impasto quotidiano. Klay decide di riempire il vuoto lasciato dalla sparizione dell'etica usando il sarcasmo, scoprendo l'inevitabile ridicolaggine dietro la bandiera dei valori. Una scelta che funziona, lasciandoci soli con domande paradossali. È giusto insegnare baseball ai bambini iracheni?

E irretire vedove di guerra per convertirle all'apicoltura? Ha ragione un uomo di fede a darsi del vigliacco per aver sostenuto che dalla sofferenza può venir fuori qualcosa di buono? Che succede se fra commilitoni che usano lo stesso giocattolo per alleviare l'astinenza sessuale esplode un contagio di herpes? Ovunque poi, in queste pagine, si nascondono i sentimenti, le relazioni a distanza con mogli e fidanzate e quelle ravvicinate con donne osservate dal mirino di un'arma.

Redeployment sarà pubblicato da Einaudi la prossima primavera, tradotto da Silvia Pareschi. Intanto, nella traduzione di Matteo Colombo che rispecchia la prosa limpida ed essenziale di Kevin Powers tanto amata da Dave Eggers, nella collana Stile Libero è disponibile Yellow Birds, un altro libro (è in preparazione un film con Benedict Cumberbatch tratto dal romanzo) che fingendo di parlare dell'Iraq dice qualcosa di noi, del rito crudele attraverso cui dobbiamo passare per lasciarci alle spalle l'infanzia e farci corrompere dall'età adulta: disonorare la parola data. Certo, non so quanti diciottenni abbiano promesso di riportare vivo un amico dalla guerra, e l'abbiano promesso alla persona che più degli altri aveva bisogno di prendere quelle parole sul serio, ovvero sua madre.

Di sicuro tutti, una volta, abbiamo preso un impegno con qualcuno che amavamo, pur sapendo di non poterlo mantenere, per poi tormentarci sulla leggerezza con cui avevamo mentito.
Prima ancora che romanziere Powers è un poeta, come Brian Turner, che è stato in Iraq nel 2003 e con i suoi quindici anni di più (Klay e Powers sono entrambi nati negli anni Ottanta) tiene a battesimo una generazione di scrittori che ha in curriculum il secondo conflitto del Golfo come altre hanno la laurea in lettere. Dopo il successo di Yellow Birds, Powers è tornato alla poesia con una silloge appena uscita per Little, Brown. Al contrario Turner, premiato dal Poets' Prize e dal PEN, a settembre si affaccerà alla narrativa con My Life as a Foreign Country (W.W. Norton & Company).

Tim O'Brien, reduce e prosatore del Vietnam nonché nume tutelare del genere (epocale, nel 1990, la sua raccolta di racconti The Things They Carried), lo ha già definito meraviglioso. Certo, pubblicando un memoir Turner rischia di uscire dalla strada indicata dallo stesso O'Brien, quella per cui la guerra diventa un soggetto universale solo se viene romanzata perché, come sappiamo, per far sì che gli episodi biografici somiglino davvero alla vita bisogna saperli sceneggiare meglio. Ma Turner, come si diceva, è un poeta e confidiamo nel fatto che di etichette editoriali come fiction e non fiction non gliene importi niente.

Non solo la guerra, ma anche la letteratura che la riguarda è roba da maschi, almeno per il momento, se non altro per la minoranza di arruolate. Kayla Williams in un libro del 2006 denunciava episodi di sessismo nell'esercito e a febbraio di quest'anno ha pubblicato Plenty of Time When We Get Home (W.W. Norton & Company), in cui racconta come lei e il marito hanno superato i ricordi traumatici riuscendo anche a salvare il loro matrimonio. In entrambi i casi si tratta di una narrazione utile a riempire un vuoto informativo. C'è solo un dettaglio che manca per raggiungere un respiro epico: se anziché partire dal bisogno di raccontare com'è essere donna in guerra, Williams si fosse concentrata su com'è essere in guerra e basta, allora sì che il suo nuovo punto di vista sarebbe stato il più interessante di tutti.

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