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Questo articolo è stato pubblicato il 15 giugno 2014 alle ore 08:14.

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«Cinquantaquattro prima, provino d'ammissione. Bellocchi». Cinquantacinque (anni dopo) seconda: Moma presents «the remarkable career of Marco Bellocchio». Era il 1959 quando il regista di Bobbio veniva ammesso al Centro sperimentale di cinematografia, come attore e con il cognome storpiato da un commissario distratto. Ed è ad aprile di quest'anno che il cineasta viene accolto nel prestigioso museo di New York con una "Retrospective" chiusasi a maggio e la distribuzione nelle sale cittadine del suo ultimo film Bella addormentata. «Per il pubblico americano, Bellocchio è stato come una cometa, una presenza nel paradiso celestiale della cinematografia», commenta Richard Peña, professore alla Columbia University, nonché una delle firme di Morality and Beauty. Morale e bellezza, una sorta di catalogo della mostra (infatti è in inglese con traduzioni in italiano), a cura di Sergio Toffetti ed edito dall'Istituto Luce e dal Csc.
Questa raccolta di saggi pensosi e affettuosi si articola in tre sezioni, «La macchina cinema», «Nostro fratello maggiore» e «Letture e interpretazioni», che affastellano rispettivamente contributi di colleghi, interpreti e maestranze, giovani cineasti e critici. Ma potrebbe essere letta altresì come un'agiografia del regista «delle soglie», così lo definisce Stefania Parigi, o «della prosa espressionista», come a suo tempo lo aveva descritto Pier Paolo Pasolini. A corredo non mancano, poi, un ricco apparato iconografico, con foto di scena e bozzetti, e una minuziosa filmografia, in cui si scopre, ad esempio, che il montaggio de I pugni in tasca è di un certo Aurelio Mangiarotti, un professionista, ma del l'edilizia. Il muratore era un amico fidato di Silvano Agosti che, non volendo comparire nei titoli di coda, gli telefonò dicendo: «Ho appena finito il montaggio di un film molto importante, ti dispiace se metto il tuo nome? Così quando il film esce a Parigi ti fanno entrare senza pagare». E così il manovale si ritrovò in poltronissima.
Dal tranche de vie agli aneddoti durante le riprese, dalla formazione artistica al percorso psicoanalitico con Massimo Fagioli, il libro sbozza un poliedrico ritratto del maestro, non senza qualche sferzata, in primis da parte del fratello Piergiorgio, qualche episodio malizioso, come le sceneggiate isteriche di Laura Betti, qualche racconto irriverente, come quello del figlio Pier Giorgio: «Sul set ce ne siamo dette e fatte di tutti i colori... ci siamo pure menati». D'altronde, Bellocchio è il primo a ironizzare su se stesso; a proposito della rivalità con Bertolucci, suo quasi coetaneo e conterraneo, dice: «Altro che rivalità! Invidia proprio, di uno che aveva conquistato Hollywood e aveva tutto a sua disposizione! Mi sentivo il cugino povero!».
La famiglia è croce e delizia di tutta la produzione bellocchiana. Il cineasta è «un personaggio con intense tracce di dolore della propria infanzia», un artista allergico a ogni irreggimentazione, movimentismo di sinistra incluso, uno straordinario direttore di attori, un visionario ma mai estetizzante, un tormentato autore che, «come Bergman, aspira alla trascendenza e continua a chieder conto a Dio», chiosa Marco Tullio Giordana, suo virtuale "figlioccio" e allievo. Ma il maestro de L'ora di religione minimizza: «Cerco di fare film come mi hanno insegnato a scuola». Tutti i maestri sono stati allievi, una volta.
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Marco Bellocchio, Morality and Beauty, a cura di Sergio Toffetti, Luce-Cinecittà e Centro sperimentale di cinematografia, Roma, pagg. 254, s.i.p.

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