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Questo articolo è stato pubblicato il 15 giugno 2014 alle ore 08:14.

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L'avevamo persa, e l'abbiamo ritrovata: è un vero piacere riscoprire sulla scena Alessandra Ferri, con il suo impareggiabile cou de pied (il collo del piede così importante per slanciare tutta la gamba di una ballerina accademica), il suo modo di correre scuotendosi e la particolare intensità. In grande forma nell'indovinato ritorno a teatro (l'addio, non credibile, risale al 2007), questa danzatrice, tra le poche in grado di battere per autenticità passionale qualsiasi collega russa di linea o di pura energia tecnica, si è calata in Chéri. E senza di lei la pièce newyorkese, firmata nel 2013 da Martha Clarke, la regista-coreografa di Vasco Rossi al Teatro alla Scala con L'altra metà del cielo, forse sarebbe stata impossibile. Chi mai saprebbe infatti "recitare danzando" (cioè senza parole) il ruolo di Léa, cortigiana matura, innamorata di un viziato signorino di vent'anni più giovane? Chi potrebbe conferire a quest'amore scandaloso, – descritto nel capolavoro di Colette – slanci e ritrosie, turbamenti e bruciori dolorosi, se non una consumata tragédienne?
Nel 1996, e non a caso, anche Roland Petit scelse un'altra star tragica, di scuola italiana, l'allora sessantenne Carla Fracci, per interpretare Léa alla Scala (la Ferri ha ora dieci anni in meno), accanto a Massimo Murru. E pure lo scomparso coreografo francese, proprio come in seguito la Clarke, volle ispirarsi al romanzo del 1920 ma anche a La fin du Chéri, il suo proseguimento, con il ritorno dalla guerra – la Prima, mondiale – dell'eroe eponimo e il suo suicidio. Altri paragoni tra i due cammei teatrali sarebbero inopportuni. La pièce della Clarke, in sintonia con il Leitmotiv del festival ravennate (dal titolo 1914, l'anno che ha cambiato il mondo), perché iscritta ai bordi e poi dentro la guerra dei 6 milioni di morti e 21 milioni di feriti, offre ben poca danza e tutta ripetitiva.
Grandi abbracci, volteggi di coppia, giri, e azioni in cui i corpi – quello di Alessandra e del suo partner, il ballerino argentino Herman Cornejo – aderiscono alla descrizione di sentimenti interiori. In questo teatrodanza senza metafore, né coreografia, va e viene Amy Irving, caustica attrice americana (recita la madre di Chéri), capace di snocciolare, nelle poche frasi espunte dai due romanzi di Colette, la sua biliosa maternità, l'induzione al matrimonio del figlio con una giovane, la perdurante gelosia nei confronti dell'amica Léa, bella a quarant'anni e a cinquanta... e vivace anche nell'anzianità. Se quest'attrice entra ed esce, gli amanti scandalosi nella pienezza della loro unione, non fanno di più: si muovono dal tavolo al letto. La stanza, assai raffinata nell'arredamento fine Ottocento, del resto, consente poco altro. Léa/Ferri apre un finestrone per sentire i rumori della notte; nei corridoi, spalancati da porte interne, la si intravede mentre accende lumi alle pareti o vi si accanisce contro, in preda al dolore per la perdita del giovane amante. Tutto, in realtà, collima. I costumi, nello Chéri della Clarke, non sono meno eleganti del décor; le musiche – di Debussy, Mompou, Ravel, Wagner e Morton Feldman – sono scelte con cura, e restituite in scena, e con delicato rigore, da Sarah Rothenberg, una pianista in costume d'epoca. L'interprete maschile è un amante credibile (Cornejo proviene dall'American Ballet Theatre): forse non così capriccioso come appare in Colette, ma tormentato dal senso di vuoto ingenerato dai traumi bellici, e dal desiderio di morte con negli occhi l'immagine di una Léa ancora affascinante, riflessa in un grande specchio. Tutto ciò, però, somiglia a un "fotoromanzo" teatrale: a un genere narrativo di cui abbiamo perduto memoria e, forse, necessità. Certo la Ferri, indimenticabile e commovente Léa, è da vedere... e questo può bastare.
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Chéri/Martha Clarke con Ferri, Cornejo, Irving, Teatro Alighieri. Ravenna Festival prosegue, nella danza, con il Ballet du Grand Théâtre de Genéve, 21 giugno

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