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Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2014 alle ore 07:55.

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Alla soglia dell'estate 2014, compare per la prima volta nelle librerie italiane Alla fine del sonno, romanzo di Willem Frederik Hermans, uno dei più importanti scrittori olandesi del Novecento. Tradotto da Claudia Di Palermo, è pubblicato da Adelphi, casa editrice interessata a concepire le proprie scelte secondo una volontà salvifica; ossia quella di costruire una cosmogonia di testi che inneschi dialoghi tra testi e testi e tra testi e lettori, che sfaldi strati geologici, che ingeneri scelte precise su una visione del mondo.

Consideriamo se questo è uno scrittore, dunque. Altra asserzione ovvia, consideriamolo: Willem Frederik Hermans è uno scrittore, certamente, ed è più che evidente da questo Alla fine del sonno (1966), la sua opera più nota insieme a De donkere kamer van Damokles (1958). Immergendosi nell'estendersi del plot, questo libro potrebbe apparire un romanzo di formazione e un romanzo di viaggio insieme, qualcosa di picaresco e persino di avventuroso: il protagonista è Alfred Issendorf, giovane geologo di belle speranze, il quale organizza una spedizione nell'estremo nord della Norvegia con alcuni obiettivi: dimostrare una sua teoria sui meteoriti, teoria che in verità è perlopiù di Sibbelee, il relatore della sua tesi di laurea; chiudere, per l'appunto, il percorso di studi; regolare i conti con suo padre, morto a seguito di una caduta in un crepaccio, che desiderava per lui esattamente un futuro da geologo.

Esplorazioni polari, paesaggi sconfinati, allucinazioni – dove il corpo è al culmine della sopportazione del dolore – lievi o grandi follie. I paesaggi potrebbero essere quelli della spedizione Endurance di Shackleton (ben raccontati negli scatti di Frank Hurley, per un prezioso volume edito da Nutrimenti nel 2012 dal titolo Shackleton in Antartide), o quelli di alcune scene indimenticabili e strazianti del film Yol di Serif Gören e Yilmaz Güney (Palma d'oro nel 1982), ma Hermans non si sofferma particolarmente sull'estremo pericolo che la natura riserva all'uomo.

Il suo spazio letterario appare assai eterogeneo, e solca orizzonti vari, che vanno dalla forma della cronaca a quella, persino, a tratti, della narrativa a carattere saggistico; da un umorismo blando – che talvolta, sottotraccia, ricorda quello del Barney di Mordecai Richler – a meditazioni metafisiche.

La cifra più netta – in questa piattaforma pluriforme – dello scrittore olandese è forse proprio quella metafisica; basti considerare l'ostinata ricerca che il protagonista compie delle foto aeree della zona di suo interesse e che ricorda quell'oggetto fantasmatico che è, per esempio, il "curriculum" per Jacob von Gunten di Robert Walser. Allo stesso tempo si intravvede in lui quello spiritus phantasticus che è tipico, per esempio, del De insomniis di Sinesio.

La spedizione di Alfred, andando avanti nella narrazione, è piuttosto intricata. Il suo obiettivo è trovare il cratere di un meteorite, ma le contingenze non lo aiutano. Lungo il viaggio, un suo compagno di spedizioni, Arne, morirà, ma Alfred non ne sarà particolarmente sconvolto. Tutto è tanto lineare quanto fantasmatico, i personaggi sono così lievi da essere vuoti; come se Hermans perseguisse, volutamente, una linea che è quella, per intenderci di Franz Kafka, con la differenza che, se nel praghese – come ebbero modo di dimostrare Gilles Deleuze e Félix Guattari – compare una costante e voluta teologia dell'assenza, nell'olandese, questa teologia è meno convinta, più spuria, e per questo più assoggettata agli scenari e ai punti di svolta della narrazione. In ogni caso, nei punti più rivelatori del libro, sembra evidente come Hermans fosse fedele a un'idea di "contemporaneo" che sarà poi successivamente teorizzata da Giorgio Agamben: «Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri.

Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente». E in effetti, con il disvelarsi dell'opera, sempre più l'autore olandese intinge la penna nelle tenebre, consegnando il lettore a scene a tratti apocalittiche, come quando Alfred resta solo – e sembra, per un attimo, una solitudine universale, come quella del fobantropo protagonista di Dissipatio H.G. di Guido Morselli – o come quando si trova nelle condizioni di dover uccidere un'anatra. Vi sarà uno schianto misterioso alla fine, in lontananza; qualcosa dalla natura senz'altro cosmica, o umana, troppo umana. Il mondo è tutto ciò che accade, sembra dire Hermans; alla fine di questa lettura, la sua cifra più limpida – e cioè più immersa nelle tenebre – sembra forse essere esplicitata dalla sua visione del cosmo e della terra. «Il cosmo è un cervello gigantesco, e la Terra non è altro che un tumore all'interno di quella massa».

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