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Questo articolo è stato pubblicato il 22 giugno 2014 alle ore 08:15.

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Nella cultura musicale italiana le cesure hanno più rilievo che non le continuità. Imponente il primato fino al primo ventennio del secolo XVIII (Vivaldi, Tartini, Domenico Scarlatti…), e subito l'irresistibile ascesa dei grandi tedeschi. E un fenomeno interno: in Italia, in quello stesso secolo XVIII, gli scrittori più rappresentativi di uno stile e di un genere specifici (come Metastasio o Goldoni) si prestano generosamente alla funzione di librettisti d'opera (Metastasio per innumerevoli lavori di musicisti italiani e stranieri, Goldoni per Vivaldi), ma nel secolo XIX, epoca in cui almeno il teatro d'opera di autori italiani riconquista il primato nel favore del pubblico se non sempre per la qualità, i grandi scrittori italiani scompaiono della librettistica d'opera. Sono assenti Leopardi, Manzoni, Berchet, anche se molti librettisti di rango stilistico e culturale inferiore sentono la forte influenza di quei tre grandi poeti, e basta rileggere i libretti di Ernani, del Ballo in maschera, della Forza del destino, per trovare leopardismi, berchettismi, soprattutto manzonismi a iosa.
La situazione persiste nella seconda metà del secolo XIX, con l'isolata e «alta» eccezione di Arrigo Boito, ma, a parte lui, il variegato e frammentato mondo poetico scapigliato, tardo-romantico, decadente, crepuscolare, produce librettisti che sono poeti degni di esser letti, ma non rimangono nella memoria storica d'Italia come riferimento. Proprio due fra i maggiori, molto amati ai loro tempi e oggi forse meno frequentati dai lettori ma più interessanti per il giudizio critico, Carducci e Pascoli, non scrissero libretti d'opera. La cesura pare sanata con D'Annunzio: numerosissime le opere (di Franchetti, Pizzetti, Zandonai, Montemezzi, Malipiero…) ispirate a suoi drammi, a parte Le Martyre de Saint-Sébastien per la musica di Debussy. Ma se un ricercatore intelligente come Alessandro Zattarin, che è anche scrittore di elegante e di efficace stile, va a fondo nell'anima di uno di quei poeti maggiori, scopre un mondo nascosto, fervido e traboccante di fascino. Certo, Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, lunedì 31 dicembre 1855 - Bologna, sabato 6 aprile 1912), malgrado la sua sensibilissima passione per il canto e la musica, malgrado il suo desiderio e i suoi tentativi (documentatissimi da Zattarin) di scrivere testi non per «melodrammi», bensì per drammi musicali cui la sua profondissima natura poetica si sarebbe unita in maniera sublime, malgrado il suo «Kunstwollen», non trovò la via offerta dal destino a tal fine. Ma in realtà, e in profondità, quanto Pascoli segreto esiste nelle zone più trascinanti delle opere di Puccini e di Mascagni! Occorre leggere questo libro rivelatore di Zattarin per sentire in noi come, per esempio, l'Aria dei Fiori, che Puccini espunse da Suor Angelica (bene ha fatto Riccardo Chailly a riproporla), spiri un soave sentire di petali avvelenati e mortiferi simile a quello che circola in Digitale purpurea. Con uno sguardo al clima poetico-musicale d'Europa, il Puccini lugubre cantore di bimbi morti e di amori funerei ha molto Pascoli in sé, ed entrambi sono consanguinei a Edvard Grieg e a Henrik Ibsen autori del Lied Med en vandlilje (Con una ninfea): ancora fiori che fanno annegare, che avvelenano, che giungono al finale sospiro pascoliano: «Si muore».
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Alessandro Zattarin, «Anch'io voglio scrivere per musica!»: Pascoli e il melodramma, Carabba, Lanciano, pagg. 408, € 24,00

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