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Questo articolo è stato pubblicato il 22 giugno 2014 alle ore 19:24.

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Ritratti italiani, che contiene tutti i babillages, le cantilene, le facezie irrefrenabili del miglior Arbasino, è tuttavia un libro addirittura severo e critico nel senso primo del discernimento e dell'orientamento in una letteratura-letteratura (italiana: da D'Annunzio a Tondelli) oggi quasi priva di istituti e addirittura d'una lingua (letteraria) di riferimento.

Se Gianni Agnelli, dotato dell'allure di «un banchiere cosmopolita carismatico e seducente – benché produca automobili non molto chic», merita l'attenzione, o la distrazione, del chroniqueur (à la Capote), Gadda e Longhi e Praz e Palazzeschi meritano l'estrema e insistente cura stilistica d'un autore che non ammette né denota alcuna discontinuità rispetto al loro stile. Chi creda che la letteratura italiana sia noiosa o morta, legga le chiose e le postille creative al Parini al Lemene al Rolli al Pepoli e al Mascheroni, in calce all'Anonimo lombardo; o legga questi Ritratti italiani la cui materia linguistica è pressoché incandescente.

Ma come lavora il critico e il saggista Arbasino? Che strumenti usa? Che tono usa? La buona educazione, che il maestro Mario Praz fissava addirittura come unico criterio di lettura dei testi, è la stessa che da Sessanta posizioni a oggi ispira Arbasino: dare la parola, più che prenderla e tenersela stretta, gli pare la via brevis alla pura e perfetta intellezione, come, sul piano morale, «non mostrare la propria anima alla folla» (Montaigne) equivale propriamente a non perderla: «Il lutto si porta dentro e non fuori», scrive qui in una pagina molto sommessa e stoica.

D'altra parte, lo stile saggistico-critico di Arbasino consiste nella sprezzatura. Stringere l'intuizione in un capoverso, regalare signorilmente in una pagina idee che per un altro sarebbero tediosamente "sistemi" in un libro, è tutto ciò che in questo scrittore sembra frutto del caso, ed è al contrario il frutto maturo di una stretta economia. «Non so se altri abbia già osservato -scrive- come sono "organizzate" le storie di Palazzeschi: esattamente come l'apertura del Bouvard et Pécuchet, l'entrata-presentazione di due compari fintamente gaglioffi su una scena vuota e pronta per una clowneria che pare disposta a esaurirsi in due battute, e porta invece incredibilmente lontano». Che cosa mai avrebbe esteso e protratto su un'idea simile, posto che l'avesse avuta, un volonteroso accademico?
Ma lo sfondo filosofico (se il termine non gli dispiace) del saggismo di Arbasino è l'idea di incompiutezza dell'opera d'arte innanzitutto cara al Settecento frequentatissimo nell'Anonimo, all'abate Parini dei Princìpi fondamentali e generali delle belle lettere, al Du Bos delle Réflexions critiques. Niente di ciò che esce dalle mani dell'uomo è compiuto, né potrebbe mai compiersi: lo sa la tessitrice indiana navajo che lascia nella trama del suo tappeto una piccola frattura, un «segno d'incompiuto», scrive Cecchi, affinché l'anima non le resti prigioniera dentro al lavoro; lo sa l'artista Mengs che a Madrid non finisce mai una sua Maddalena, perché l'indomani potrebbe essere «un po' più finita»; lo sa l'«incomparabile» ed estremista Max Beerbohm, che scrive: «Quando Michelangelo definiva davvero una cosa, il risultato non era poi così stupendo». E meglio di tutti lo sa Arbasino, che non considera "definitiva" neppure la stesura di una pagina e men che mai definitivo Fratelli d'Italia: «Perché il variantismo e il perfezionismo possono diventare maniacali, e la versione ultima è solo una fra le tante probabili (l'opposto del "ne varietur" tombale)».

Fine, conclusione, compimento non hanno nulla a che fare con la verità dell'opera, anche la più apparentemente conclusa. Neppure un sonetto del Petrarca, a rigore, è finito. E la perfezione stessa, la formatività piena che Arbasino con una specie di ascetismo da stilita richiede alla propria opera, non si realizza. Ma pretendere "maniacalmente" e necessariamente perfezione ultima, e raggiungere perfezione probabile, è il fatum di un'arte che lo stesso Arbasino serve con una straordinaria umiltà. (E dopotutto: «L'opera fondamentale del pensiero italiano degli ultimi due secoli è lo Zibaldone di Leopardi, un'opera frammentaria e postuma»).

Il saggismo, dunque, l'infarto saggistico per cui, secondo Gadda, «la stessa proposizione critica diviene personaggio», è la virtù somma degli italiani, non replicabile in nessun romanzo-romanzo: lo stesso Manzoni, quando Goethe lo esorta a una maggiore «purezza» narrativa, non si decide e lascia nei Promessi sposi i capitoli stridenti e incongruenti della peste, della carestia, della meta del pane a Milano.

Così, al contrario, questi ritratti-saggi di Arbasino contengono aneddoti, dialoghetti, reminiscenze, "fabellae non inamenae". E compaiono amici, come il borbottante Italo Calvino che rivela il significato del tempo vuoto tra un'opera e l'altra, tra un progetto e l'altro, con l'historiette di un imperatore cinese e d'un suo suddito artista. Come Elisabetta Catalano, i cui bellissimi ritratti mostrano la bellezza (degli intelligenti) e la bruttezza (delle «mezze calze»). Come Raffaele La Capria, di cui si legge: ««Chiunque abbia mai amato la Letteratura, e sia stato ricambiato magari un pochino, ora dovrebbe inventare qualche immagine o metafora più adatta per un Autore che non è mai corso dietro ai frou-frou delle mode ideologiche seriose e cheap, e dunque naturalmente viene riscoperto come un locale "doc" di alta qualità (Anche Gadda, a chi gli chiedeva: "Ma tu non ti muovi?", rispondeva: "No, non mi muovo")».

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