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Questo articolo è stato pubblicato il 22 giugno 2014 alle ore 19:21.

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Uno scatto di Guido Guidi cui va il Premio Hemingway 2014Uno scatto di Guido Guidi cui va il Premio Hemingway 2014

«La riluttanza da parte dei critici ad addentrarsi nelle aspre ragioni dell'etica non giova né alla letteratura né alla morale, poiché, nonostante il loro successo e la loro importanza, né i media né tantomeno i tribunali riusciranno mai a suscitare nel nostro animo un fenomeno di immedesimazione profondo come quello provocato dalla letteratura».

Così scriveva Abraham B. Yehoshua nell'introduzione a una raccolta di saggi, Il potere terribile di una piccola colpa (Einaudi, 2000), che, se a prima vista e in tempi di imperante politically correctness, poteva apparire poco convincente, conteneva tuttavia una grande verità. E cioè che la letteratura è finita in un angolo perché tradita in una delle sue motivazioni più importanti.

Da insostituibile guida morale che era al tempo in cui Tolstoj scriveva Anna Karenina, ha finito per cedere a certi agenti che sono tanto impropri quanto incompetenti: i media, appunto, e i tribunali: entrambi incapaci di quella «suspension of disbelief»" di cui parla Coleridge e che porta il lettore a riconoscere dentro di sé – attraverso un atto di co-inherence o "co-inerenza" con il testo – certe verità profonde altrimenti indimostrabili.
I media, sempre così sensibili a questioni di equità e correttezza politica, che si avvalgono soprattutto di interviste e sondaggi, e che ci espongono al rischio di confondere lo studio dei dilemmi morali sollevati da un testo con le conclusioni che ciascuno di noi può trarre misurandoli con le proprie piccole nevrosi; e i tribunali a cui sempre più si tende a delegare il giudizio su ciò che è giusto o ingiusto, laddove la loro funzione – e il loro ambito! – è invece solo quella di stabilire la legalità o illegalità delle azioni umane.

Devo dire che quando lessi per la prima volta il libro di Yehoshua rimasi un po' perplesso. Ero nel mezzo di una battaglia campale contro i burocrati della critica, ovvero quel modo fin troppo facile di insegnare allo studente a valutare un'opera d'arte sulla base di convinzioni esterne all'opera stessa: sulla base, cioè, di una causa che si aveva in mente e che poteva essere politica, economica, religiosa o sociale, e che divideva facilmente la realtà tra buoni e cattivi, e gli artisti tra "quelli che stanno con noi" e "quelli che sono contro di noi".

Non che avere un'opinione decisa in qualsiasi campo lo ritenessi un male, ma nell'ambito della letteratura era mia convinzione che per rispondere alle domande dello studente desideroso di imparare il mestiere bisognava prima di tutto riflettere su quella frase di Oscar Wilde che tagliava la testa al toro: «Non esistono libri morali o immorali. Ci sono libri scritti bene o scritti male, e questo è tutto».

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