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Questo articolo è stato pubblicato il 22 giugno 2014 alle ore 08:14.

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Ci sono libri che occorre leggere perché approfondiscono la conoscenza di un terreno conosciuto, vi esplorano angoli remoti, sentieri nascosti, offrono topografie più dettagliate. Ci sono libri che ricapitolano in sintesi un'epoca, un lungo dibattito storico: semplificano l'accumulo, liberano da clichés, aiutano a ripartire. Ma rari sono i libri che rivelano mondi obliati, quartieri abbandonati, sorgenti inascoltate e pur vive: sono quelli che rinnovano gli studi e ravvivano il piacere della lettura. Il vasto affresco di Anne Piéjus sulla musica, l'Oratorio, i testi e i canti, a Roma alla fine del Cinquecento, è uno di questi ultimi: dotto e luminoso, erudito e tuttavia piano, ricco di quella ariosa e «bellissima vista, che soprasta a tutta la Città di Roma», come si delinea nell'«oratorio all'aperto» - a Sant'Onofrio al Gianicolo - ove si riuniscono per le "laudi spirituali" e i sermoni domenicali i discepoli di San Filippo Neri.
Il fascino dei testi, delle partiture, delle voci vive dei protagonisti, compositori e fedeli, si associa a una coscienza storica libera da ipoteche; al centro è la nuova spiritualità oratoriana che poggia sulla forza dell'affermazione biblica «Ex ore infantium et lactentium perficisti laudem» (Ps. VIII, 3; e Matth., XI, 25), che sarà poi tema di sant'Agostino (Enarrationes in Psalmos, VIII), degli ultimi canti del Paradiso di Dante, e di Savonarola, al quale spesso rinvia - come fonte per Filippo Neri - l'autrice. Questa centralità dei semplici, degli umili, è pari alla loro laude «poverella, semplice, dolce», al loro dire e cantare di facile memoria: «Ei nasce innamorato / Per noi inamorare, / E tutti liberare / Dal giogo del peccato». È un saggio che, come La musica dei semplici, esplora il territorio vasto e anonimo della "parola pubblica" domenicale, festiva in tutti i sensi, eppur sobria, che dall'Animuccia al Tempio armonico dell'Ancina (1599), dispiega una rasserenata «ricreatione spirituale» «con la musica infra mezzo, et in fine». Siamo stati abituati, dalla storiografia italiana in cerca di martiri e aguzzini, a un'idea dell'ultimo Cinquecento tutto avvolto nelle tenebre soffocanti di processi e Inquisizioni. Il fenomeno riguardò certo qualche élite, alle quali il De Sanctis - e di lì in poi gli storici dell'Italia Unita - volle affidare un compito redentivo, assai lontano dalla realtà storica del XVI ma anche del XIX secolo. La storiografia francese, che non aveva bisogno di quei laici santuari, ha tenuto sempre - da Bataillon a Delumeau, da Bruno Neveu a Bernard Dompnier - un atteggiamento più libero e attento ai fenomeni sociali più larghi, alle espressioni collettive; non è un caso, del resto, che la prima grande inchiesta storica su San Filippo Neri sia dovuta proprio a due storici d'Oltralpe, a Louis Ponnelle e Louis Bordet (Saint Philippe Neri et la société romaine de son temps: 1515-1595, Parigi 1928). E lo stesso Delumeau, di questa Roma che è pur quella del Palestrina e anche del Tasso che volle venirvi a morire, e poi di Bernini e Borromini, celebra appunto, in quella fine del Cinquecento, la sua "seconda gloria". Una Roma brulicante di botteghe, da un censimento del 1622: vinattieri (622), carpentieri (415), merciai (382) e anche 97 orefici e 89 librai, con 17.584 apprendisti; e percorsa da canti, letizia, refezioni su pubblica piazza come quelle al termine del pellegrinaggio alle "Sette Chiese". E quella Roma, come risulta dal "foglio volante", pubblicato da Anne Piéjus, Modo di visitare le sette Chiese di Roma (Roma, Ruffinelli, 1588), è aperta e universale, affettuosa e corale: così «salmeggiando e cantando Laudi, letanie o altre devozioni» si arriva alla Navicella, e lì «si farà la collazione, laqual mentre dura, si canteranno alcune Laudi»; una socievole cordialità che riguarda la terra e, in fondo, anche il cielo: «Onde possiamo un giorno / senza vergogna in Ciel starti d'intorno» (G. F. Anerio, O sacra verginella, 1619). Se Lucien Febvre aveva definito l'uomo del Rinascimento come un homme de plein vent, Anne Piéjus ci presenta degli hommes de plein chant. E l'autrice non ci offre soltanto questo inedito ritratto corale, ma s'appunta con finezza sui rapporti reciproci - da sperimentata musicologa - tra testi e partiture, analizzando le infinite sfumature del «Cantasi come…», ma attenta a non perdersi nelle descrizioni di una devota spettacolarità; rintraccia anzi gli intimi progetti di un ispiratore e di un ordine che mirava a una raccolta interiorità, sì che evoca dal Tempio armonico questa squisita esortazione: «Cantatevi pur dentro allegramente lodando e magnificando a più puotere quella Gran Regina del Cielo…».
La predicazione ancora vi è presente, di sermoni e sermoncini, raccolti con la musica in una efficace formula: «Architettura sonora, retorica spirituale», in un esame completo di tutte le forme della liturgia, come il Teatro armonico spirituale di madrigali a cinque, sei, sette e otto voci di Giovanni Francesco Anerio (Roma 1619). Nei molti libri di Essercizii spirituali di Agostino Manni pubblicati tra il 1609 e il 1620, si trovano talvolta versi che sembrano preludere alle grandi voci del Seicento, al Pascal del "Dio nascosto", ai mistici della "quiete": «Il mio Dio sta nascosto / E 'l luoco suo dentro a le cose ha posto. / Sta il mio Signor secreto / E nei riposi suoi giace quieto» (Essercitii, Brescia 1609).
La parola condivisa ha spesso più sapienza di tante pointes acérées, e questo affresco ne è splendida illustrazione; ci restituisce l'ultimo Cinquecento quale fu: un compendio di "aspirazioni" e di popolo.

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