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Questo articolo è stato pubblicato il 22 giugno 2014 alle ore 08:14.

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Dovremmo andare a vedere questa mostra tenendoci per mano, figlie, mogli, amiche, compagne. E insieme, senza età e senza gelosie, dovremmo sentire l'urlo liberatorio di quel titolo, Dora Maar. Nonostante Picasso. Due nomi e una congiunzione che raccontano la storia di una delle artiste più moderne nella Parigi degli anni '30, eppure vittima della violenza più antica che gli uomini, anche quelli di talento smisurato, infliggono alle donne per rabbia, tirannia e in fondo debolezza. Nonostante il suo genio, Picasso ha annientato Dora Maar. E nonostante un lungo periodo di buio e dolore, Dora Maar è tornata a noi come una delle più originali interpreti della fotografia del '900. Non sorprende quindi se a illuminare questo destino fulgente, tragico e di nuovo luminoso sia proprio una donna, Victoria Combalía, storica dell'arte spagnola. Spetta a lei infatti, dopo un invidiabile rendez-vous telefonico con Dora Maar nel 1993 e vent'anni di studio sul suo lavoro, presentare per la prima volta in Italia, nella mostra di Palazzo Fortuny a Venezia, l'opera di quest'artista così complessa, fotomontaggio, come molte sue opere, di tante esistenze.
La prima di queste vede una bambina che sia chiama Henriette Theodora Markovitch, un nome un po' francese, come sua madre, un po' bizantino per augurarle una vita da imperatrice, un po' slavo visto che il padre, Joseph Markovitch, è un architetto croato. Henriette nasce a Parigi il 22 novembre del 1907, all'89 di Rue d'Assas, non lontano dai caffè di Montparnasse che frequenterà insieme ai Surrealisti, e a pochi isolati da boulevard Saint-Germain e dai Deux Magots, dove nel 1936 a 29 anni divenuta Dora, conquisterà Picasso, anni 54, giocando con un coltello tra le dita e offrendo come pegno d'amore, e premonizione del sacrificio, una stilla di sangue. Ma prima di arrivare all'appuntamento con il genio che lei stessa definisce «uno strumento di morte, non è un uomo, è una malattia», Dora si trasferisce a Buenos Aires, dove suo padre realizza il famoso palazzo di Nicolás Mihanovich, armatore croato al servizio dell'impero austroungarico. Il ricordo di «quell'architettura monumentale e della sua valenza oppressiva e inquietante», tutta maschile, racconta la curatrice, lascerà molti segni dell'opera della futura artista.
Le metamorfosi si susseguono velocemente. Tornata in Francia, nel 1923 Dora studia all'École et Ateliers d'Art Décoratifs di Parigi, dove incontra Jacqueline Lamba, poi moglie di André Breton, con la quale stringe un'amicizia profonda. Quindi s'iscrive all'Académie Lhote, e qui conosce Henri Cartier-Bresson. Ma è Marcel Zahar, critico d'arte, a convincerla a dedicarsi alla fotografia e a passare all'École de Photographie de la Ville de Paris. All'inizio degli anni '30 Dora Maar è una fotografa professionista e seguendo le stesse misteriose strutture che appaiono nel suo obiettivo incontra Louis Chavance, cineasta e aiuto regista di Pierre Prévert. Hanno la stessa età, lo stesso amore uno per l'altro. Louis conosce gli artisti di Montparnasse e a tutti presenta quella splendida ragazza, riservata, intensa, dal portamento aristocratico, «un tipo che non si dimentica facilmente, con quello sguardo straordinariamente luminoso, limpido come il cielo di primavera e quella voce unica, singolare, come un gorgheggio nel canto degli uccelli», come dirà di lei James Lord, scrittore inglese, amico di Picasso e autore della biografia Picasso e Dora. Ricordi privati (Archinto). Sono giorni felici. Dora conosce Brassaï, Man Ray, Paul Éluard, Jacques Prévert, André Breton, Luis Buñuel, Méret Oppenheim che posa per lei, e poi Georges Bataille, a cui si lega sentimentalmente. Nelle immagini di quegli anni sogno e realtà, mistero e politica nel senso di vicinanza forte al partito comunista, sono miracolosamente in equilibrio. Ai diseredati della Zone, uno dei quartieri più poveri di Parigi, si affianca il volto di porcellana di Nush Éluard, e così alle oniriche pubblicità per la lozione Hahn, dove un veliero naviga in un mare di chiome ondulate, si avvicinano i celebri fotomontaggi, dall'erotico Jeux Interdits, all'enigmatico Aveugles à Versailles, nel quale Dora ritaglia e riunisce i non vedenti bambini e adulti, ritratti con ossessione fino allora.
«Forma i tuoi occhi chiudendoli», aveva scritto André Breton. La verità s'illumina nel buio dell'inconscio. E nel buio di un cinema Jean Renoir presenta agli amici il suo ultimo film, Il delitto del signor Lange, con sceneggiatura di Jacques Prévert. È il 7 gennaio 1936. Si riaccendono le luci e nella folla degli invitati Paul Éluard introduce Dora Maar a Picasso. Per entrambi è una passione grande, almeno all'inizio. Lui le scrive: «Arrotolate attorno alle caviglie il cuore del vostro umile ammiratore». Lei è la prima, nel senso di prima creatura umana, a seguire Picasso al lavoro, tanto da fotografare la nascita di Guernica, l'immensa tela che l'artista dipinge tra il maggio e il giugno 1937 nell'atelier al numero 7 di Rue des Grands-Augustins. Quasi punendola per aver spiato il Minotauro nelle segrete del suo palazzo, Pablo spinge Dora a lasciare la fotografia, quella cifra stilistica che la rendeva unica, grande, libera, persino troppo alta, in tutti i sensi, e la convince a tornare alla pittura. Il confronto è sadico. «Tanti segni per non dire niente», sentenzia lui, commentando le tele della compagna. Dora piange, dentro e fuori i ritratti che Picasso le dedica. Lui la lascia nel 1943, lei impazzisce. Elettrochoc, solitudine, analisi con Jacques Lacan, e infine il ritorno alla fede, e oggi alla fama. Storia di una sopravvissuta. Come tante donne, nonostante tutto.

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