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Questo articolo è stato pubblicato il 29 luglio 2010 alle ore 09:18.
Quindici anni. Era la capacità diMariella Burani Fashion Group, nel dicembre 2008, di ripagare i propri debiti con i flussi di cassa. Ai tempi la società era già una delle più indebitate di Piazza Affari.
Dopo 50 acquisizioni dal 2000 in poi (oltre a quelle fatte dalle holding di controllo) e cinque quotazioni sulla Borsa di Milano e di Londra, il gruppo era arrivato al limite dell'uso della leva finanziaria, tanto che nel maggio del 2009 con il deterioramento dei conti è scesa in campo Mediobanca per cercare di risollevare le sorti del gruppo attraverso un piano di dismissioni per 60 milioni e la ristrutturazione del debito che allora ammontava a 404 milioni di euro. L'intervento di Piazzetta Cuccia era arrivato come ultima ratio per la famiglia Burani, che aveva tentato con il fai da te: prima con la cessione del 49% di Ap bags (controllata di Antichi Pellettieri) al fondo inglese 3i, poi con la carta del riassetto attraverso l'offerta parziale su Mbfg e l'ipotesi di fusione fra quest'ultima e Antichi Pellettieri e infine con le trattative avviate con private equity e investitori arabi, che in qualche modo avrebbero dovuto apportare nuovi capitali al gruppo.
I covenant sul debito saltati a fine 2008 e la svalutazione degli avviamenti per 60 milioni di euro, che erodendo il patrimonio netto hanno finito per far salire ulteriormente la leva del debito, non hanno dato altro tempo agli azionisti per trovare una via d'uscita e una volta in mano agli advisor finanziari la situazione è inevitabilmente esplosa. Chi ha annusato aria di tempesta ha preferito fare un passo indietro, come nel caso della Rosato Gioielli la cui fondatrice ha ricomprato proprio nel maggio dello scorso anno il 50% venduto al gruppo Burani nel 2007. Altri, invece, sono rimasti perché il fallimento non sembrava un'ipotesi fondata. È il caso delle controllate di Antichi Pellettieri come la Baldinini (60%) o attraverso Ap Bags (51% allora) i marchi Mandarina Duck (100%), Coccinelle (51%), Braccialini (80%), Dadorosa (100%) e Francesco Biasia (100%), oltre ai marchi detenuti attraverso la Gioielli d'Italia (98%). Tutte società che non sono comunque state attratte nel fallimento della controllante.