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Questo articolo è stato pubblicato il 25 agosto 2011 alle ore 06:41.

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Il calcio è pronto a scioperareIl calcio è pronto a scioperare

Serie «A». Sempre che si riesca a conservarlo, questo rating. Quello che fino a poco tempo fa era "il campionato più bello del mondo" si appresta ad aprire i battenti – sciopero, permettendo, dopo la rottura di ieri fra Lega e sindacato dei calciatori – su una stagione che potrebbe portare in dono uno sgradito downgrading. Quella «A», difesa a denti stretti, rischia di tramutarsi in un voto più basso sancendo l'arretramento del torneo tricolore nell'ambito delle Leghe europee. Già superato da Premier league e Bundesliga in termini di fatturato e dalla Liga delle regine Barcellona e Real in quanto a spettacolarità, la serie A sarà insidiata nei prossimi anni dalla Ligue 1 francese, arricchita dai finanziamenti per i nuovi stadi di Euro 2016 e dai petrodollari del Qatar Investment Autorithy che sta rifondando il Paris Saint Germain. Senza dimenticare la concorrenza dei club d'Oltrecortina capaci ormai di contendere a suon di mega-ingaggi giocatori di prima fascia. Per il momento, il fair play finanziario, promosso dalla Uefa di Michel Platini sembra essere una camicia di forza soprattutto per le società italiane.

Non che altrove la crisi non si avverta. Nella Liga spagnola potrebbe slittare, dopo lo scorso week end in bianco, anche la seconda giornata, per via della protesta dei calciatori che non ricevono gli stipendi da mesi (si parla di arretrati per 50 milioni) e dove decine di club in deficit sono in amministrazione straordinaria. I club portoghesi hanno accumulato 500 milioni di debiti e in Olanda 13 fra i 18 team della Eredivisie hanno conti in rosso. Società superindebitate non mancano, del resto, neppure nella Premier.
Ma l'impoverimento della Serie A fa più scalpore perché commisurato a un passato di fasti sportivi e di potenzialità finanziarie che non avevano eguali in Europa. Che il gigante d'argilla del calcio italiano Spa stenti a tenere il passo delle big europee è un dato di fatto. Per la prima volta dalla riapertura delle frontiere negli anni Ottanta nessun top players è arrivato in Italia. Anzi, la serie A ha dovuto cederne agli altri campionati (da Sanchez a Pastore, da Eto'o a Menez). Nella classifica delle operazioni più costose del 2011, inoltre, non figurano colpi messi a segno da club italiani. Finora l'acquisto più caro in Italia lo ha fatto il Napoli spendendo 18 milioni per Inler.

I bilanci delle 20 squadre di A sono la cartina di tornasole di questa scarsa competitività. Prendendo a riferimento quelli relativi al 2009 e al 2010, visto che le regole del fair play prevedono che i club "virtuosi" non maturino nel prossimo biennio (2011/2012 e 2012/2013) un rosso d'esercizio superiore a 45 milioni, si nota come Milan e Inter siano teoricamente "fuorigioco". Mentre solo 5 squadre si mantengono in linea di galleggiamento. Il fatturato dei club italiani inoltre ne fa delle imprese di dimensioni più piccole che medie. Le milanesi e la Juve hanno ricavi stagionali per 200-250 milioni, mentre i big europei viaggiano sui 400-500. A fronte di entrate inferiori, l'eredità del passato si fa ancora sentire tuttavia con costi per il personale e per l'ammortamento di cartellini elevati che assorbono più di due terzi dei ricavi. Ecco perché le parole d'ordine dell'estate sono state tagli ai compensi e investimenti su giovani speranze. Un approccio più sano, certamente. Il rischio però è che un campionato in vena di austerity sia meno ambito. Nei prossimi mesi si dovrà rinegoziare il contratto con le tv per il triennio 2012-2015 e se queste ultime dovessero stringere i cordoni della borsa, il miliardo di euro all'anno che finora ha garantito la sopravvivenza del calcio italiano Spa potrebbe diventare un miraggio. La serie B potrebbe debuttare stasera con i diritti per la trasmissione in digitale terreste invenduti. Basterebbe un'offerta più bassa del 10% per mettere in ambasce molti club. Il tallone d'Achille del calcio italiano, in effetti, sta nella limitata diversificazione degli introiti, con la legge sugli stadi dimenticata alla Camera e strategie di merchandising che non decollano.

Al contrario, nel Palazzo la litigiosità è da record. I club hanno appena smesso di azzuffarsi per spartirsi i 200 milioni dei vecchi diritti tv ancorati ai bacini d'utenza, che è riscoppiata, dopo un anno e mezzo di tira e molla, la grana del contratto collettivo. Lo sciopero in vista della prima giornata è un'eventualità sempre meno remota. La Figc che ha provato a mediare sugli allenamenti separati dei fuori-rosa tenterà ancora oggi di scongiurarlo. Il vero nodo, a questo punto, è il contributo di solidarietà introdotto con il decreto di Ferragosto. Alle società di A potrebbe costare fino a 100 milioni in tre anni e per questo vorrebbero inserire nell'accordo collettivo un chiarimento sull'inderogabile obbligo a pagarlo degli atleti. Per questo ieri l'assemblea di Lega ha respinto a larga maggioranza, 18 contro 2 (Siena e Cagliari), l'intesa con l'Aic. «Il campionato rischia di non partire – ha spiegato il presidente della Lega di serie A Maurizio Beretta – perché l'Aic non vuole mettere in forma scritta che i giocatori dovranno pagare il contributo e non accetta che gli allenamenti siano organizzati sulla base delle esigenze dei tecnici».

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