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Questo articolo è stato pubblicato il 21 marzo 2012 alle ore 07:00.

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Nella metamorfosi, il sistema produttivo si trasfigura. Già abbiamo detto delle grandi imprese, del declino del fordismo delle partecipazioni statali e dell'atterraggio sul territorio delle grandi corporation transnazionali – ben quindici nella sola Terni – con una classe operaia che passa da 12mila a 3mila addetti in pochi anni. Nel frattempo, agricoltura, turismo e borghi intraprendono un percorso di transizione a metà strada tra la "soft & green economy" e l'eventologia, per dare una nuova rappresentazione del proprio territorio nel mondo e per attrarvi quanti più visitatori possibili. Si parla di marketing territoriale, di eventi di come Umbria Jazz, Eurochocolate, il Festival di Spoleto. Senza dimenticare di come la Fondazione Symbola abbia per anni fatto dell'Umbria borghigiana il vero laboratorio dell'economia dolce. Muta anche l'artigiania, in cui sempre più manca la dimensione che sappia creare relazioni tra un artigianato diffuso sul crinale fra arte e manifattura, come quello delle ceramiche di Deruta, e un arcipelago in formazione di medie imprese leader.

Da viticoltori di fama mondiale come Caprai e Lungarotti a un piccolo Adriano Olivetti del cachemere come Brunello Cucinelli con il suo borgo di Solomeo, sino a realtà diversificate come il Gruppo Margaritelli che fa le traversine per l'alta velocità ferroviaria e il Listone Giordano. A manifatture capaci di reinventarsi nella globalizzazione come Umbra Cuscinetti, che produce le viti più raffinate del mondo. A un leader mondiale nella produzione di energia solare termodinamica come Archimede Solar Energy, che lavora con Siemens e con il Premio Nobel Carlo Rubbia alla costruzione della prima centrale solare produttiva indipendente al mondo. Fino alla bioraffineria delle bioplastiche della Novamont a Terni. Muta, sempre più, anche il ruolo del pubblico impiego. La cui pervasività ha indubbiamente consentito all'Umbria di reggere l'urto della crisi.

Ma che è messo in forte discussione dentro il nuovo ordine tecnocratico, fatto di parametri europei cui uniformarsi, di bilanci in pareggio, di tagli e di liberalizzazioni.
La chiave per leggere il futuro dell'Umbria sta nella sua capacità di negoziare e quotare sui mercati la propria apertura al mondo. Nel suo passare da enclave dolce a nodo di reti. Reti di prossimità, che la collocano nel modello tosco-umbro-marchigiano e che schiudono legami e collaborazioni possibili con la Val d'Arno, con Arezzo, con il Montefeltro attraverso la Gola del Furlo, con la Romagna e con l'Alto Lazio. E reti globali, con le quali interconnettersi per dare corpo e rappresentazione di tutto questo. Ha ragione Putnam, ancora una volta. È un'operazione che riuscirà, questa, solo se saprà guardare alle virtù civiche.

C'erano molte virtù civiche nel Patto territoriale dell'Appennino centrale. In cui, anni fa, la periferia di questa città dolce costruì, a partire dai Gruppi di azione locale, i Gal, un patto per lo sviluppo transregionale tra 89 comuni e 11 comunità montane, mettendo assieme Toscana, Umbria, Marche e Romagna. Oggi, a ben vedere, c'è bisogno proprio di questo. Di un nuovo patto territoriale transregionale che sappia fare delle spazio di posizione dell'Umbria e dell'Italia di mezzo un nuovo spazio di rappresentazione globale.

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