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Questo articolo è stato pubblicato il 21 marzo 2012 alle ore 07:00.

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L'Umbria è un microcosmo. Che può essere raccontato, ancora una volta, seguendo le orme di Robert Putnam fra le virtù civiche dei suoi comuni. O ancora meglio, estremizzando secondo i canoni classici dell'urbanistica, immaginando l'Umbria come una grande e dolce città di novecentomila abitanti che si fa regione, costruita.

Con una via principale che corre da Perugia a Terni, con i suoi quartieri di Gubbio, Assisi, Todi, Spoleto, Foligno, Orvieto, Città di Castello, immersi in un arcipelago borghigiano fatto di tante piccole Spello, Bevagna, Solomeo, Montefalco.
Allo stesso modo si potrebbe raccontare la storia dell'economia umbra come il frutto di un lungo ed altrettanto dolce percorso, in cui appaiono tutte le fenomenologie del fare impresa. Quella agricola, diffusa ed intensiva. Quella del turismo verde, culturale, religioso.
E ancora, il tessuto dell'artigiania che si è fatta capitalismo molecolare fino alle grandi imprese agroindustriali come Buitoni e Perugina, o a quelle siderurgiche dalla Finsider alla Terni. Senza dimenticare il ruolo di quelle banche locali figlie dell'intraprendenza dei mercanti locali.

Il tutto era tenuto assieme da un'ormai storica unità politica, un enclave rosso tenue che negli ultimi anni si è tinta di rosa (non è un caso che l'Umbria sia l'unica regione italiana che dall'inizio del nuovo millennio ha avuto solo Presidenti donna).
L'istituzione regionale ha fatto programmazione della città diffusa con una fitta ragnatela di servizi pubblici e un forte ruolo della macchina pubblica e del pubblico impiego.
La metamorfosi rompe questo racconto idilliaco in cui tutto sembra tenere: la storia, le identità locali, policentrismo e oligarchia, programmazione regionale e sviluppo locale, crescita economica e tutela del paesaggio, grandi imprese e artigiania.

Già dalla fine dello scorso millennio l'Umbria scopre di non essere più enclave, di doversi confrontare con l'attraversamento dei flussi. Anche qui, in altre parole, arriva il capitalismo delle reti. Con i cantieri delle grandi arterie infrastrutturali, l'arrivo dei big del credito e delle multinazionali manifatturiere.
L'Umbria scopre di non essere più enclave anche con la E45 Cesena–Roma e con la Grosseto–Fano che tagliano in lungo e in largo la metropoli dolce, senza dimenticare il progetto del quadrilatero umbro-marchigiano, con la Perugia-Ancona e la Foligno-Civitanova Marche. Con la sussunzione delle banche locali, che diventano terre di conquista nel risiko bancario di fine anni Novanta. Con multinazionali come Nestlé e ThyssenKrupp che si mangiano in un sol boccone i baci Perugina e gli acciai speciali della Terni. Con l'Aeroporto di Perugia che diventa l'emblema del fallimento del tentativo di continuare a pensarsi come un'enclave anche nel nuovo scenario competitivo.

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