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Questo articolo è stato pubblicato il 17 gennaio 2014 alle ore 20:53.

Volevo dire qualcosa a proposito del cinquantesimo anniversario della «guerra alla povertà» del presidente Lyndon Johnson. Già intorno al 1980, secondo il Center on Budget and Policy Priorities, l'opinione comune era che quello sforzo fosse fallito. Lo stesso istituto, tuttavia, alcuni giorni fa ha pubblicato un articolo in cui si sostiene che, guardando attentamente i dati, la tesi dell'insuccesso non sta in piedi: le misurazioni della povertà che prendono in considerazione gli aiuti pubblici (aiuti del genere di quelli erogiati dalla guerra alla povertà di Johnson!) evidenziano un marcato declino dagli anni 60 in poi. In America c'è più miseria di quella che dovrebbe esserci, ma meno di quanta ce ne fosse un tempo.

Resta comunque vero che i progressi nella lotta alla povertà sono stati deludenti. Ma qual è la ragione?
A questo proposito è il caso di sottolineare che la destra americana non si discosta, sull'argomento, da una tesi ormai fossilizzata, una storia sulle ragioni del persistere della povertà che trent'anni fa poteva avere qualche fondamento, ma che oggi è completamente sbagliata.

Negli anni 70 dicevano che la guerra alla povertà era fallita a causa della disintegrazione sociale: i tentativi del Governo di aiutare i poveri erano vanificati dal collasso dell'istituzione familiare, dall'aumento della criminalità e via discorrendo. E negli ambienti di destra, e talvolta anche di centro, si sosteneva spesso che gli aiuti pubblici contribuivano semmai a favorire questa disintegrazione sociale. La povertà, insomma, era un problema di valori e coesione sociale, non un problema di soldi.
Non è mai stato veramente così, anche se alle classi alte piaceva crederlo: come ha dimostrato tempo fa il sociologo William Julius Wilson, la disintegrazione sociale in realtà aveva molto a che fare con il calo delle opportunità lavorative nelle aree urbane. Comunque, qualcosa di vero c'era.

Il problema è che stiamo parlando di un mucchio di tempo fa. Oggi il tasso di criminalità è molto calato, è calato il numero di gravidanze in età adolescenziale, e così via: non c'è stato nessun collasso della società. C'è stato invece un collasso delle opportunità economiche. Se i progressi nella lotta alla povertà sono stati deludenti nell'ultimo mezzo secolo, la ragione non è il declino della famiglia, ma l'aumento estremo della disuguaglianza.
Gli Stati Uniti oggi sono una nazione molto più ricca che nel 1964, ma ai lavoratori della metà più povera della distribuzione del reddito di questa maggiore ricchezza è arrivato poco e niente.

Il problema è che la destra americana vive ancora negli anni 70, o meglio in una fantasia reaganiana degli anni 70: il suo concetto di misure antipovertà si limita ancora a provvedimenti per costringere quegli sfaccendati ad andare a lavorare, invece di vivere alle spalle dell'assistenza pubblica. La realtà, e cioè il fatto che i lavori meno qualificati, quand'anche si riesce a trovarli, non garantiscono un reddito sufficiente per sottrarre le persone alla miseria, non sembra riuscire a far presa. E l'idea di aiutare i poveri aiutandoli per davvero rimane un anatema.
Riusciremo mai a depurare questo dibattito dalle welfare queen di reaganiana memoria et similia? Non lo so.
Ma per il momento la chiave per comprendere il problema è che la ragione principale del persistere della povertà sta nell'elevata disuguaglianza del reddito di mercato: solo che la destra non riesce ad ammetterlo.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

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