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Questo articolo è stato pubblicato il 25 febbraio 2014 alle ore 16:48.
L'ultima modifica è del 15 ottobre 2014 alle ore 14:28.

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LONDRA – Il governatore della Bank of England (BoE), Mark Carney, ha sorpreso il pubblico in una conferenza alla fine dello scorso anno che il giro d’affati di Londra crescerà e sarà oltre nove volte il Pil della Gran Bretagna per il 2050. La sua previsione rappresentava la semplice estrapolazione di due trend: la continua e profonda crisi finanziaria in tutto il mondo (ossia, una crescita degli asset finanziari più rapida di quella dell’economia reale) e il mantenimento nella City della propria quota di business finanziari globali.

Forse sono congetture ragionevoli, ma la previsione ha profondamente sconvolto molti. Ospitare un enorme centro finanziario, con banche nazionali di ampie dimensioni, può essere costoso per i contribuenti. In Islanda e Irlanda, le banche hanno superato la capacità dei loro governi di sostenerle all’occorrenza. E il risultato è stato disastroso.

A parte i potenziali costi di salvataggio, secondo alcuni l’ipertrofia finanziaria danneggia l’economia reale appropriandosi di talenti e risorse che potrebbero essere impiegate meglio altrove. Ma Carney sostiene invece che il resto dell’economia britannica beneficia del fatto di poter contare su un proprio centro finanziario globale. Essere nel cuore del sistema finanziario globale, ha dichiarato, amplia le opportunità di investimento per le istituzioni che si occupano dei risparmi britannici e rinforza l’abilità del manifatturiero e dei settori creativi inglesi a competere a livello globale.

È certamente l’assunto su cui è stato creato il mercato di Londra e la linea che hanno seguito i successivi governi. Ma ora è sotto tiro.

Andy Haldane, uno dei banchieri della BoE ereditati da Carney, ha contestato il contributo economico del settore finanziario, indicando la sua capacità sia di rinvigorire che di limitare ampie parti di economia non finanziaria. Sostiene (in un discorso dal titolo rivelatore ) che il contributo riportato del settore finanziario al Pil è stato fortemente sovrastimato.

Due documenti recenti sollevano ulteriori dubbi. In , Robin Greenwood e David Scharfstein della Harvard Business School dimostrano che la quota di finanza nel Pil americano è quasi raddoppiata tra il 1980 e il 2006, poco prima dello scoppio della crisi finanziaria, passando dal 4,9% all’8,3%. I due fattori principali che hanno guidato questo incremento sono stati l’espansione del credito e il rapido aumento delle risorse dedite alla gestione degli asset (associata, non a caso, alla crescita esponenziale delle entrate del settore finanziario).

A detta di Greenwood e Scharfstein quel dominio finanziario si è rivelato una doppia benedizione. Avrebbero potuto esserci più opportunità di risparmio per le famiglie e maggiori fonti diversificate di finanziamento per le aziende, ma il valore aggiunto dell’attività di gestione degli asset è stata illusoria. Da un lato implicava portafogli dispendiosi e dall’altro il maggiore livello di indebitamento nascondeva la fragilità del sistema finanziario nel suo insieme e imponeva severi costi sociali nel momento in cui le famiglie sovraesposte fallivano.

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