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Questo articolo è stato pubblicato il 22 luglio 2014 alle ore 16:42.
L'ultima modifica è del 15 ottobre 2014 alle ore 14:15.

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STANFORD – Molti europei sono ormai convinti di essersi lasciati la tempesta economica e finanziaria alle spalle. Negli ultimi due anni, d'altronde, deficit e debito si sono stabilizzati, gli interessi sul debito sovrano delle economie più deboli della periferia dell'eurozona sono calati drasticamente, il Portogallo e l'Irlanda hanno terminato i rispettivi programmi di salvataggio e l'ipotesi che la Grecia uscisse dall'euro è rientrata.

Tutto questo è vero, ma c'è un grosso problema: la crescita economica dell'Unione europea resta anemica. a è diminuito nell'ultimo trimestre, mentre quello francese si è mosso appena. Gli esperti stanno fino all'1% annuo. , un dato impressionante, mentre negli Stati Uniti si è attestato al 10%, il livello peggiore raggiunto durante la grande recessione americana. In Grecia e Spagna, invece, esso supera il 25%, con punte ancora più alte tra la popolazione giovanile.

Tre problemi – debito sovrano, euro e instabilità bancaria – ostacolano l'economia europea nonostante le numerose misure di sicurezza varate di recente, tra cui il (MES), la politica del denaro facile e le partecipazioni del debito sovrano della Banca centrale europea e il delle circa 130 maggiori banche paneuropee, avvenuto a novembre. Nessuna di queste riforme si è dimostrata sufficiente per ripristinare quella crescita forte di cui l'Europa ha un disperato bisogno.

Il diffuso malcontento economico si riflette nella recente instabilità politica. Le elezioni del Parlamento europeo dello scorso maggio hanno sconvolto le élite europee evidenziando un dei partiti di estrema destra, euroscettici e anche di sinistra, dovuto in parte alla frustrazione popolare per la concentrazione di potere nelle mani della Commissione europea. La Gran Bretagna sembra incamminata verso un referendum sull'Ue che dovrebbe tenersi nel 2017, a meno che non vengano riviste alcune condizioni relative alla sua adesione.

I leader eletti devono affrontare un compito arduo: emanare difficili riforme strutturali dei mercati del lavoro, dei sistemi pensionistici e delle tasse, che avrebbero dovuto attuarsi molto prima della crisi e che restano, nella migliore delle ipotesi, in una fase embrionale in gran parte dei paesi, mentre la condizione fiscale dei paesi ad alto debito è migliorata solo di poco. Fra l'altro, l'Italia e la Francia chiedono di essere esonerate dalle regole dell'eurozona in materia di deficit di bilancio e debito.

Gli economisti non hanno la certezza che un rapido consolidamento fiscale sia associato a costi o benefici a breve termine. Dal canto mio, credo che ciò dipenda da una serie di fattori e circostanze, come la dimensione, la credibilità e la tempistica del risanamento, il mix di tagli di spesa e fiscali, se il consolidamento sia perlopiù permanente e strutturale (ad esempio, preveda una modifica delle formule previdenziali) e, naturalmente, l'orientamento della politica monetaria.

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