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Finanza e Mercati In primo piano

Le Borse dimezzano il peso sul Pil. La finanza "trasloca" su mercati privati e opachi

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Questo articolo è stato pubblicato il 15 giugno 2010 alle ore 10:22.

La Borsa, almeno nei paesi industrializzati dell'Occidente, pesa sempre meno. Sembrerà strano ma, a fronte di una recessione che ha tra i principali imputati l'eccessiva finanziarizzazione, i mercati azionari hanno perso importanza rispetto all'economia reale. O almeno questo dice l'andamento, negli ultimi dieci anni, del rapporto tra la capitalizzazione e il Prodotto interno lordo.

Nel 2000 Wall Street e Times Square valevano il 152,7% del Pil a stelle e strisce; a fine 2009 il loro peso è sceso al 105,7 per cento. Discorso analogo per la Germania: a inizio millennio la capitalizzazione di Francoforte, rispetto a tutta la ricchezza tedesca, pesava per il 67,8%; al 31 dicembre dell'anno scorso valeva il 38,54 per cento. Anche in Gran Bretagna lo scenario si ripete: il rapporto tra la market cap della City e il Pil è passato dal 184,3 al 128 per cento. E per quanto riguarda l'Italia? Il calo è ancora più accentuato: la capitalizzazione di Piazza Affari nel 2000 equivaleva al 68,7% della ricchezza prodotta nella penisola mentre al 31 maggio 2010 il rapporto (calcolato in euro) è sceso al 25,24 per cento; cioè, meno della metà.

Non è solo Borsa
«Sono dati che non stupiscono» sottolinea Giovanni Tamburi, banchiere e fondatore della boutique d'affari Tip. «Da un lato, i recenti crolli degli indici hanno schiacciato le capitalizzazioni. Dall'altro, soprattutto negli anni prima del credit crunch, l'aumento della finanza è avvenuto grazie all'eccesso di leva. Nella capitalizzazione il debito non è ricompreso e, quindi, il peso delle Borse scende. Ciò detto, la diminuzione della market cap è un ottimo segnale: l'indizio del ritorno alla normalità».
Una valutazione tutto sommato condivisa da Carlo Maria Pinardi, docente di finanza aziendale internazionale alla Bocconi: «Premesso che, vista l'alta volatilità, simili dati vanno presi con le molle - dice l'economista -, non trovo contraddizioni rispetto al tema della finanziarizzazione dell'economia». Per quale motivo? «Le Borse rappresentano i tradizionali mercati regolamentati. Negli ultimi anni, però, parte importante degli scambi sui prodotti finanziari, che influenzano l'industria reale, è migrata su piattaforme diverse, alternative».

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Basta ricordare, per esempio, il boom dei derivati trattati Over the counter (Otc) negli Usa. Secondo il Comptroller of the currency administrator of national banks, a fine 2009 il valore nozionale di questi prodotti scambiati negli Otc dai 25 più grandi gruppi finanziari americani era salito a 204.581.411 milioni di dollari. Una cifra impressionante. E che, come hanno mostrato le polemiche sui Cds, pone il problema della trasparenza. «Il principio, peraltro alla base della Mifid stessa - ricorda Pinardi -, era che la concorrenza avrebbe dovuto portare a più trasparenza ed efficienza. Così non è stato. La mancanza di stanze di compensazione, per esempio, crea difficoltà nel garantire sempre un prezzo o nel dare profondità agli scambi».
Insomma, da un lato la "dieta" delle capitalizzazioni prova l'affermarsi di piattaforme opache come gli Otc; dall'altro, è la rimonta dell'economia reale.

Il rapporto aureo
Già, il ritorno all'economia reale. Piaccia o no, la finanziarizzazione dell'economia ha creato uno stretto legame tra la Borsa e il signor Rossi, tra titoli azionari e realtà. Nell'ultimo decennio i mercati si sono aperti al retail; la loro crescita ha prodotto un aumento delle disponibilità di molti, con il relativo incremento della propensione al consumo. Cui si è aggiunto un ottimismo di fondo, che ha fatto da leva alla domanda aggregata. È il cosiddetto "effetto ricchezza".
Questo meccanismo, però, con la crisi si è inceppato. E vale la pena chiedersi se una capitalizzazione eccessiva rispetto al Pil sia positiva o meno. «Non esiste - spiega Tamburi - un valore aureo: bisogna distinguere caso per caso. I paesi emergenti, come per esempio il Brasile, hanno visto la capitalizzazione crescere, e di molto. Ma è un trend giustificato dai fondamentali macro-economici. Diverso è l'eccesso della Gran Bretagna dove l'azienda manifatturiera è stata messa in un angolo rispetto alla finanza. E ora Londra ne paga le conseguenze».

Il minor peso di Piazza Affari
Conseguenze sconosciute in Italia dove, al contrario, il peso specifico di Piazza Affari non è mai stato elevato.
«È la fotografia - dice Stefano Micossi, direttore generale di Assonime - di una struttura economico-finanziaria debole, per ragioni antiche e recenti». Vale a dire? «In Italia fare impresa, soprattutto di grandi dimensioni, è difficile. Il mercato del lavoro resta troppo rigido; lo stato è onnipresente e distorce, quando non corrompe, il tessuto economico e civile; la finanza è troppo banco-centrica. Così, le grandi imprese vanno via o scompaiono e la Borsa resta asfittica».
Ma non è solo il sistema. «L'imprenditore italiano- riprende Tamburi - privilegia il controllo rispetto alla crescita. L'aprirsi a nuovi capitali è considerato negativo. E questo deprime la Borsa». «E c'è, poi, il timore - aggiunge Micossi - di "farsi vedere" che può trasformarsi nel "farsi colpire", in un sistema dove c'è il pericolo della confisca fiscale e normativa». Forse, proprio la crisi obbligherà gli imprenditori ad aggregarsi e cercare nuovi finanziamenti. Magari anche nella "bistrattata" Piazza Affari.

HANNO DETTO

Giovanni Tamburi
Banchiere e presidente di Tip

«La crescita delle market cap, in Brasile o Cina, è supportata dai fondamentali macro»

Carlo Maria Pinardi
Economista

«Il problema negli Otc è la mancanza di un soggetto che operi quale clearing house»

Stefano Micossi
Direttore generale Assonime

«In Italia è difficile fare impresa. Non ci sono grandi aziende La Borsa resta asfittica»

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