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Finanza e Mercati In primo piano

«Barclays rilancia con forza la sua scommessa sull'Italia»

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Questo articolo è stato pubblicato il 17 giugno 2010 alle ore 08:21.


Mentre l'Italia si appresta ad alzare barricate a Bruxelles sulla definizione di indebitamento nell'ambito della riforma del patto di stabilità, c'è chi ne condivide le posizioni di massima dal vertice di una delle principali banche del mondo. John Varley, Group Chief Executive della Barclays, mostra una fiducia sull'Italia che si basa in buona parte sull'elemento del basso livello dell'indebitamento privato e quindi su un debito aggregato che va messo in primo piano nel fotografare il sistema-paese. Varley è a Milano per fare il punto sul business dell'istituto britannico in un paese che continua a considerare strategico e meritevole di investimenti nonostante la crisi di fiducia nell'Eurozona.
Le rinnovate tensioni finanziarie internazionali hanno cambiato il vostro approccio all'Italia? La considera a rischio contagio nell'Eurozona o no?
In Italia siamo cresciuti in modo considerevole negli ultimi 10 anni. Continuiamo a considerarla un paese strategico su cui investire secondo le nostre direttrici principali: sia nel retail e nel wealth, sia nel corporate e investment banking, per offrire servizi sempre più completi. L'Italia è una delle principali economie europee. Oggi ci troviamo di fronte a un problema di fiducia nel debito sovrano dell'Eurozona, ma non credo che la situazione complessiva sia così grave come quella che il mondo si trovò ad affrontare nell'ottobre 2008. La questione delle riduzioni dei deficit fiscali ha ottenuto un livello di attenzione politica molto alto, con una manifesta determinazione dei governi a porsi come gestori responsabili delle loro economie. L'Italia ha una storia di alto indebitamento ma anche di capacità di affrontare il problema e di migliorare i bilanci. L'alto livello del rapporto tra debito e Pil non è una novità, mentre è particolarmente rassicurante il basso livello di indebitamento delle famiglie.
Negli ultimi giorni vari elementi hanno fatto tornare ansia sui mercati e generato tensioni sul mercato interbancario. Un ministro spagnolo ha ammesso che le banche del suo paese stanno incontrando difficoltà a rifinanziarsi. Non è grave che siate tornati a non fidarvi troppo gli uni degli altri o che sia scesa la fiducia nella solidità dei bond bancari? Senza parlare di situazioni specifiche, voglio dire che la Bce è stata molto chiara nell'annunciare un ampio pacchetto di supporto e di accesso alla liquidità nel caso in cui le banche dell'Eurozona debbano riscontrare difficoltà di finanziamento. Questo è un passo molto significativo. La combinazione tra mosse dei governi e disponibilità della Bce a offrire ampia liquidità sarà molto utile ai fini di ripristinare una stabilità. Quello che il mercato vuole vedere sono le prove che i deficit siano riportati sotto controllo.

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Le tensioni sul mercato rinviano alla questione della solidità delle banche, che le autorità - dall'America all'Europa fino al G-20 - intendono assicurare con una serie di proposte imperniate soprattutto sull'idea di imporre requisiti più severi o limitazioni all'operatività. In questa prospettiva, cosa appoggia e cosa teme?
Come ceo di una grande banca, io riconosco in pieno che una riforma del settore è necessaria, al fine di abbattere la possibilità che sorga un'altra crisi come quella scoppiata nel 2008. Nei media molti sostengono che le banche siano in «denial» della necessità di riforme, ma non è questo l'atteggiamento che riscontro nelle mie conversazioni con altri banchieri. Il modo migliore di uscire dalla crisi che abbiamo sperimentato, così come di affrontare il problema dei deficit pubblici, è attraverso la crescita economica, di cui uno dei motori fondamentali è l'erogazione di credito. Alcune riforme finalizzate a ridurre i rischi sistemici vanno introdotte sollecitamente, dalla riduzione del leverage al livello della liquidità. Del resto, qui si sono già fatti progressi: i capital ratio e la liquidità sono ben più alti oggi e il leverage è molto minore. Ma ci sono altre riforme che avrebbero effetti dannosi sulla stabilizzazione e sulla crescita economica sul medio termine. Non dico che sul lungo termine debbano avere effetti negativi. Ma certe misure danneggerebbero la capacità delle banche di erogare prestiti. Suggerirei un doppio binario: alcune riforme subito, altre più avanti. Un congruo periodo di tempo per le riforme porterebbe a tre vantaggi. Anzitutto, data l'interconnessione del sistema finanziario, gli strumenti di risk management devono essere largamente coerenti: il che si può ottenere senza fughe in avanti da parte di questa o quella autorità. In secondo luogo, il rischio che il mercato azionario sconti in negativo misure affrettate e disomogenee risulterebbe limitato. Infine, per la crescita mondiale, è particolarmente importante che le banche forniscano ampio credito nei prossimi 2-3 anni, quando gli stimoli fiscali si esauriranno e si ridurrà la liquidità dalle banche centrali.
Sulle richieste di ridimensionamento delle banche o di separazione delle loro attività fino a porre in discussione il modello di banca universale, o su tassazioni straordinarie impostate come una polizza per eventuali salvataggi futuri, la sua contrarietà è assoluta?
L'esperienza insegna che la risk performance e la redditività delle banche medie e piccole è più volatile rispetto a quella degli istituti più grandi. Costringere le grandi banche a rimpicciolirsi non porterebbe a un sistema meno esposto a rischi. Non c'è una relazione tra fallimento di una banca e dimensioni piccole o grandi, attività ampia o focalizzata, proiezione internazionale o concentrazione domestica. Capisco l'argomento dell'«azzardo morale» dei più grandi, ma è una questione di regolamentazione l'impedire un eccesso di assunzione di rischi. Quanto a eventuali proibizioni di alcune attività, per esempio sul short selling, credo che sia meglio consentirne la continuità che non imporre interruzioni. In merito a tassazioni straordinarie, il punto è non solo cosa si vuole ottenere, su cui siamo tutti d'accordo, ossia evitare futuri ricorsi a denaro dei contribuenti. È il come: si può fare in molti modi.
In Gran Bretagna c'è chi desidera una regolamentazione meno rigida rispetto a quella europea per sostenere il ruolo della City di Londra.
Non penso in questi termini. Le credenziali della City dipendono da un forte e credibile "framework" che ispira fiducia. In una industria globalizzata, i pacchetti di riforme finalizzate a ridurre i rischi sistemici non potranno essere identici ovunque, ma a mio parere devono essere largamente coerenti, ad esempi su questioni come il Tier-1, la composizione del capitale, i parametri della liquidità.
Molti desiderano che le banche tornino a un modello più tradizionale di business. Ma nell'ultimo trimestre, l'80% dei vostri profitti è venuto da Barclays Capital…
Si è trattato di un trimestre. La lettura dei bilanci degli ultimi anni mostra una situazione differente. Siamo impegnati a svilupparci attraverso sia una diversificazione sul piano geografico sia una diversificazione per linee di business. Per esempio, avremo un retail più internazionale, perseguiremo forti ambizioni nel wealth management - settore in cui stiamo investendo anche in Italia –, mentre espanderemo su scala globale – Italia compresa – le competenze acquisite con l'acquisizione delle attività ex Lehman Brothers in Nord America.
Per questo intendete lanciare, come da indiscrezioni, una «dark pool platform» in Europa nel terzo trimestre?
Il nostro obiettivo è portare di fronte ai nostri clienti un range di servizi al massimo delle capacità tecniche.
Il consolidamento nel settore bancario è finito?
I periodi di turbolenze non sono quelli più indicati per M&A strategici. Va considerato che rispetto ad altri settori globali (petrolio, auto, farmaceutica), il comparto bancario è ancora molto frammentato. Le prime 20 banche non hanno più del 25% del mercato. La crisi ha accelerato un trend, specie nell'investment banking, che non è finito e in futuro sarà guidato dalla richiesta della clientela.
Ci sono state molte polemiche sui compensi dei banchieri. Lei ha rinunciato al bonus, anche se la sua società non ha chiesto fondi pubblici.Una faccenda da regolamentare?
Se, come risultato della crisi finanziaria, gli stipendi dei dipendenti pubblici., dalle infermiere ai poliziotti, sono congelati, anche il settore bancario deve porsi un problema. Ma siamo una industria di servizi e una industria globale. Come abbiamo un obbligo di comportamento responsabile, abbiamo anche quello di porre le persone più qualificate possibili di fronte ai nostri clienti. Quindi dobbiamo retribuire in modo competitivo.
Nel vostro azionariato sono entrati fondi sovrani. Soci dormienti o che si fanno sentire?
Dieci anni fa gli azionisti britannici erano predominanti, oggi contano per circa il 35%. Un grande cambiamento. La diversificazione della nostra base azionaria è un fatto positivo e tra l'altro supporta la diversificazione geografica delle nostre attività.
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DICE DI LORO
MARIO DRAGHI Presidente Fsb «Per le riforme opportuno un doppio binario: alcune subito, altre in tre anni»
JEAN-CLAUDE TRICHET Presidente Bce «Francoforte si è mossa in modo incisivo per rassicurare i mercati»

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