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Dalla Cina una doccia fredda sull'oro

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Questo articolo è stato pubblicato il 08 luglio 2010 alle ore 08:51.


«Grazie alla protezione che offre contro l'inflazione e contro le incertezze dell'economia mondiale, l'oro nei prossimi mesi potrà toccare 1.500 dollari per oncia», sosteneva ieri Brian Kinane, gestore del fondo americano Yorkville Advisors.
Qualche dubbio però in questi giorni ha scalfito la sicurezza di molti investitori, tanto che a Londra il primo fixing ha visto ieri il metallo a 1.186 $/oz, il minimo dal 24 maggio scorso. Il record assoluto raggiunto nove giorni prima è stato decapitato di 75 $ e la discesa è stata favorita dalle dichiarazioni provenienti dalla Cina: lo State Administration of Foreign Exchange infatti ha raffreddato non poco il clima intorno al bene rifugio.
L'oro rappresenta una riserva di valore, dice Pechino, ma non può divenire «uno dei canali principali in cui indirizzare le riserve ufficiali cinesi».
Il parere è stato motivato con cura: - il mercato è dimensionalmente limitato e gode di un discreto equilibrio tra domanda e offerta, per cui, se si comprano forti quantità, il suo prezzo sale e mette in difficoltà il settore della gioielleria e i consumatori; - le quotazioni sono volatili, soggette a ogni mossa valutaria, geopolitica e speculativa. Inoltre non genera interessi, ma piuttosto comporta costi di gestione. «Osservando l'andamento degli ultimi 30 anni, il ritorno dell'investimento in oro è da considerare modesto»; - comprare più oro per le riserve non riuscirebbe a diversificarle in maniera significativa, perché Pechino ha già aumentato il metallo in suo possesso a 1.054 tonnellate e anche raddoppiando il quantitativo finirebbe per utilizzare 30-40 miliardi di dollari, una goccia nel mare delle riserve ufficiali complessive, valutate intorno a 2.450 miliardi.
Il significato reale delle dichiarazioni è che la Cina non cambierà le strategie di investimento, quanto meno non a favore dell'oro. Ma per molti è stata una doccia fredda, capace di amplificare le vendite. Per Daniel Briesemann, di Commerzbank, l'atteggiamento cinese «smorza gli entusiasmi» e può far proseguire i ribassi, sia pure per poco. È d'accordo anche James Moore, di The Bullion Desk, secondo cui però «nulla suggerisce che si tratti di qualcosa di più di una correzione temporanea».

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Tags Correlati: Bank of Australia | Brian Kinane | Daniel Briesemann | Investimenti delle imprese | James Moore | Pechino | The Commonwealth | Yorkville Advisors

 

Certo è che lunedì alcuni operatori erano pronti a scommettere che l'oro non sarebbe sceso presto sotto quota 1.200 dollari, mentre ieri l'analista della Commonwealth Bank of Australia nella sua nota affermava che si sarebbe sorpreso «se avesse visto l'oro risalire a breve oltre i 1.200 dollari».
Nemmeno Pechino comunque cancella le tesi dei rialzisti a oltranza, quelli che nel 2009 confidavano nel sostegno offerto all'oro dal calo del dollaro e che nel primo semestre di quest'anno hanno visto nella crisi dell'eurozona il principale fattore favorevole al metallo. Il materializzarsi di una recessione double-dip, quindi a forma di W, ridarebbe smalto al bene rifugio, aprendogli ampi spazi di risalita. In buona sostanza, come sempre, il vero elemento propulsore dell'oro è il pessimismo sugli sviluppi dell'economia mondiale.
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