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Questo articolo è stato pubblicato il 30 agosto 2010 alle ore 08:15.
È come un virus che muta nel tempo. Parte a febbraio 2007, con il fallimento di alcune aziende di subprime. Si crede che il mercato pulisca tutto, ma a giugno la Bri spiega che nel mondo gira una massa di titoli di cui si sa poco. Quanti sono? Dove sono? «La risposta più onesta – dice – è che non sappiamo». Le borse iniziano allora a cadere e le banche centrali sostengono sempre più le aziende di credito. A fine 2007 però l'interbancario si ferma: tutti temono che la controparte abbia titoli infetti. A settembre 2008, dopo stabilizzazioni annunciate e cali di borsa, il virus muta, attacca l'economia reale.
Le industrie Usa dell'auto, e poi tutte le altre, annunciano un forte calo della domanda, su cui si innesta il fallimento Lehman, che è come sradicare un albero: le radici vanno lontanissimo. Comincia un "semestre nero", le borse calano del 40-45%, la produzione scende dal 15 al 25 per cento. Nasce il salvataggio Usa, che somiglia a quello Iri: si acquistano titoli infetti, da vendere quando i mercati sono stabilizzati. Ad aprile 2009 il G-20 prevede una rapida ripresa. Rapida non è e i livelli precrisi restano lontani: in Italia siamo ancora "sotto" del 15 per cento. L'economia risponde agli stimoli, ma appena questi finiscono, l'attività si ferma. Gli aiuti poi costano e i bilanci pubblici si riempiono di buchi.
Nel giugno 2010, a Toronto, se Gran Bretagna e Usa chiedono ancora stimoli, la Uem preferisce sanare i conti. La spinta si è ora attenuata, e ovunque si perde produttività. A questo punto nessuno sa bene cosa fare. Da banche e società, lo scompenso si è trasferito a stati e banche centrali ed è potenzialmente più grave. Nulla di immediato, ma non c'è nessuna vera risoluzione in vista. Aspettiamo il prossimo atto.
* Mario Deaglio è docente di economia internazionale all'università di Torino Negli anni 80 ha diretto Il Sole 24 Ore