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Questo articolo è stato pubblicato il 02 settembre 2010 alle ore 09:13.
L'ultima modifica è del 02 settembre 2010 alle ore 09:16.
Sostiene Carlo Cottarelli, l'economista italiano che dirige il dipartimento fiscale del Fondo monetario, che «i mercati finanziari stanno nettamente sopravvalutando il rischio di un default nei paesi avanzati». La Grecia continua a scontare la probabilità di un default, con spread altissimi, che neppure il pacchetto di aiuti Ue-Fmi, né la prima valutazione positiva dei progressi sulla strada del risanamento, hanno compresso in modo duraturo. «E ogni asta di titoli di stato in Europa - aggiunge - è attesa con ansia, sembra essere diventata il possibile detonatore di un default».
Non solo la Grecia, anche Irlanda e Portagallo, che hanno varato piani di aggiustamento dei conti pubblici draconiani, restano nel mirino.
Nel dibattito con chi sostiene che una ristrutturazione del debito, quanto meno della Grecia, sia inevitabile, se non ora, fra uno o più anni, anzi sia tutto sommato auspicabile o quanto meno il minore dei mali, il Fondo monetario, non sorprendentemente, si schiera senza esitazioni sul fronte opposto, sposando la soluzione più ortodossa del risanamento fiscale accompagnato da misure per il rilancio della crescita. Inequivocabile il titolo di una nota diffusa ieri, scritta dallo stesso Cottarelli con altri due economisti italiani dell'Fmi, Lorenzo Forni e Paolo Mauro, e con Jan Gottschalk: un default «non è necessario, né desiderabile, né probabile». Al Fondo confessano un senso di frustrazione per lo scetticismo che accompagna la fattibilità del risanamento fiscale predicato dal programma concordato con Atene. A supporto delle proprie tesi portano i casi passati di non insolvenza in molti paesi su cui i mercati avevano accusato le fibrillazioni più acute (compresa l'Italia dei primi anni 90) e sottolineano le differenze con molte economie emergenti che invece sono poi precipitate in default.
E provano, gli economisti dell'Fmi, a smontare una a una le tesi dei commentatori che hanno sposato l'ineluttabilità del default. A partire dalle dimensioni troppo grandi dell'aggiustamento di bilancio richiesto. Niente affatto, dicono al Fondo, ci sono precedenti in 14 paesi avanzati (fra cui l'Italia del 1993) e in 26 emergenti. Il vero problema dei paesi avanzati oggi, sostengono gli economisti dell'Fmi, non sono gli alti tassi, ma l'ampio deficit primario, cioè la differenza fra spesa ed entrate pubbliche al netto della spesa per gli interessi sul debito. Il deficit primario mediano nei paesi presi in esame dal Fondo (compresi tutti quelli considerati in diversa misura "a rischio" dai mercati, quindi anche Stati Uniti e Regno Unito, oltre al Giappone e alla periferia di Eurolandia) ammonta al 7,4% del Pil, mentre il valore mediano del conto per gli interessi è solo del 2,3. Una ristrutturazione del debito, anche con una forte penalizzazione dei creditori, non ovvierebbe quindi alla necessità di un forte aggiustamento fiscale.