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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2010 alle ore 13:55.
Importare petrolio dall'Iran sta diventando sempre più difficile. Ma non per le imprese italiane. I nostri raffinatori almeno per ora non sembrano condividere i problemi denunciati dall'Agenzia internazionale dell'energia (Aie): le sanzioni internazionali, afferma l'organismo dell'Ocse, stanno provocando la «conseguenza imprevista» di ostacolare i rifornimenti da Teheran. Non perché l'acquisto di greggio iraniano sia vietato – un embargo così rigido è applicato solo dagli Stati Uniti, che hanno troncato le relazioni commerciali col paese dalla rivoluzione islamica del 1979 – ma perché quasi tutte le banche occidentali si rifiutano di concedere le lettere di credito necessarie per il pagamento del greggio.
Tra le rarissime eccezioni c'è Intesa Sanpaolo, che senza tanti clamori continua a garantire un servizio che non viola né leggi né sanzioni, ma che per altri è forse divenuto fonte di imbarazzo. Naturalmente l'attività si svolge entro un'ambito attentamente circoscritto: interpellata dal Sole 24 Ore, la banca ha precisato che si limita a «supportare l'importazione del solo petrolio greggio da parte di aziende italiane, nel pieno rispetto delle normative vigenti».
Un compito non da poco. In Italia, stando agli ultimi dati dell'Unione petrolifera, entrano ogni giorno circa 150mila barili di greggio iraniano, oltre il 10% del totale delle importazioni petrolifere. Di questi 35mila sono dell'Eni, che non li importa (e dunque non necessitano di lettere di credito) perché rappresentano la "retribuzione" dei contratti di servizio stipulati anni addietro con l'Iran. Gli altri 115mila, riferiscono fonti di settore, vengono acquistati per la maggior parte da Saras, Gruppo Api e Iplom, che li trasformano in prodotti raffinati.
Gli acquisti sono costituiti soprattutto da Iranian Heavy, una qualità di greggio pesante e ad alto contenuto di zolfo, di cui il nostro sistema di raffinazione, molto orientato verso la produzione di bitume, ha un grande bisogno e che non si presta ad essere sostituito molto facilmente: il sostituto più a portata di mano nell'area del Mediterraneo è il russo Ural, che nell'ultimo mese è rincarato di oltre 2 dollari al barile, in parte proprio per la difficoltà di acquistare Iranian Heavy. Greggi simili si producono anche in Libia, ma in quantità modeste. E poi ci sarebbero i sauditi Arabian Medium e Arabian Heavy, ma Riad da gennaio ha smesso di venderli in Europa, preferendo offrirli a clienti asiatici.