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Questo articolo è stato pubblicato il 21 settembre 2010 alle ore 23:09.
Nessun giudizio sul caso personale, sul manager Alessandro Profumo. Ma sulle modalità di gestione dell'intera operazione; sulle implicazioni, per il sistema bancario italiano, dell'uscita di scena dell'ex amministratore delegato di UniCredit, su quelle gli economisti esprimono il loro parere.
Una governance inadeguata
«I modi - dice Giacomo Vaciago, docente di politica economica all'università della Cattolica di Milano - sono stati incivili, non degni né di una grande banca né di un paese industrializzato. Inoltre, la successione, in un gruppo societario di tali dimensioni, dev'essere preparata. Non si può cacciare così, su due piedi, l'amministratore delegato».
Un aspetto, quello del governo aziendale, ripreso dallo stesso Tito Boeri, docente di economia del lavoro all'università Bocconi di Milano. «Credo esista un problema sotto questo profilo, per un duplice motivo. Il primo riguarda il metodo seguito per arrivare alla dimissioni di Profumo. Nessuno mette in dubbio il diritto degli azionisti di cambiare il management, anche in una fase di mutamento come quello che sta vivendo UniCredit. Tuttavia, bisogna farlo nelle sedi giuste, nel cda. Qui, invece, la decisione sembra comunque maturata al di fuori degli organi deputati. Di più: non è stato ancora individuato il successore. Una mancanza di continuità nella gestione che preoccupa». E il secondo motivo? «Bé, non mi sembra che la performance di piazza Cordusio sia così deludente da giustificare questo cambiamento».
Anche Marco Vitale, economista d'impresa, esprime il suo disappunto: «Si tratta di una pessima notizia non solo per Profumo, non solo per la Banca bensì per tutto il Paese. Sia per l'evento in sé, che per le modalità che hanno portato a tali dimissioni. Ancora una volta la serietà e la moralità manageriale vengono punite dal sottobosco politico».
Profumo, i libici e il "Bancone"
Se sussiste una convergenza d'opinioni rispetto alla governance, l'unità tra gli esperti svanisce nel momento in cui si cerca il perché di un tale passaggio. «Profumo - è il commento di Vaciago- ha commesso un errore: quello di averci spiegato che i libici sono investitori qualunque. Non è così. La Lia e la Banca centrale di Tripoli sono sottoposti al medesimo controllo. Sono sotto la tutela di un dittatore come Muammar Gheddafi: questo è un fatto che non può negarsi. Quindi, le loro quote non vanno considerate separatamente, bensì devono essere pesate insieme». Con la conseguente violazione del tetto massimo del 5% al possesso per il singolo azionista, così come definito dallo statuto del gruppo bancario.